Prescrizione diritto: come funziona?

Ecco i vari aspetti che caratterizzano la prescrizione di un diritto

Chi è debitore di qualcuno o chi, in generale, vorrebbe farla franca nei riguardi di un potenziale creditore, spera di salvarsi con la prescrizione. In particolare, pare che molti che abbiano una certa cognizione dell’argomento e che sappiano che il decorso del tempo può essere un buon amico. Spesso, però, si fa molta confusione su questo istituto giuridico e sulla sua concreta applicazione. Pertanto, allo scopo di chiarire le idee al lettore, con questo articolo vorrei rispondere a una domanda in particolare. Prescrizione diritto: come funziona?

Si tratta di un dubbio che assale, ad esempio, coloro che non hanno pagato un vecchio finanziamento: una problematica rimasta sopita per molto tempo e, nuovamente, diventata attuale a seguito di una richiesta proveniente da una società di recupero crediti.

Oppure, dinanzi ad una serie di cartelle esattoriali, ci si chiede come non possano essere prescritte, nonostante si riferiscano a tributi o multe di tanti anni fa.

Insomma, in questi o in altri casi, per saperne di più, potresti continuare la lettura. Vedrai che al termine avrai le idee più chiare sui vari aspetti che riguardano la prescrizione.

Prescrizione diritto: cos’è?

Parlando in termini tecnico-giuridici, la prescrizione è un modo di estinzione del diritto. Ciò significa che è una circostanza, come un’altra, in presenza della quale un diritto cessa di esistere e di poter essere efficacemente esercitato. Faccio un esempio pratico per spiegarmi meglio.

Se Tizio è creditore di Caio di 1.000 euro, una volta che quest’ultimo avrà saldato il proprio debito, evidentemente, avrà estinto il diritto di credito. Tizio potrebbe, ugualmente, azionare la propria pretesa, ad esempio, con un ricorso per decreto ingiuntivo. Ovviamente, si scontrerebbe con la ricevuta di pagamento in possesso di Caio che bloccherebbe ogni indebita pretesa.

Se Tizio è creditore di Caio di 1.000 euro, una volta decorsa la prescrizione, evidentemente, questa avrà estinto il diritto di credito. Tizio potrebbe, ugualmente, azionare la propria pretesa, ad esempio, con un ricorso per decreto ingiuntivo. Ovviamente, si scontrerebbe con la prescrizione eccepita da Caio che bloccherebbe ogni indebita pretesa.

Dalla vicenda esemplificata si capisce che il diritto di credito si può estinguere in modi diversi: cambiano le modalità, ma l’effetto è identico.

Prescrizione: mancato esercizio del diritto e il tempo

Avendo compreso che stiamo parlando di un modo di estinzione del diritto anche se lo stesso non è stato rispettato, diventa fondamentale comprendere come opera. Ebbene, i due presupposti fondamentali per capire come funziona la prescrizione sono: il mancato esercizio del diritto e il decorso del tempo.

Il primo elemento è rappresentato, quindi, dall’inerzia del creditore. Questi, anche solo per dimenticanza oppure per scelta, ha deciso di non recuperare una somma dovutagli (ciò vale per ogni diritto soggetto a prescrizione).

Il secondo requisito, invece, è di natura temporale. La mancanza di iniziativa appena descritta, infatti, deve protrarsi per un certo periodo di tempo; è la legge a stabilire, caso per caso, quando ciò accade. Ecco un altro esempio pratico per comprendere questo aspetto.

Se Tizio è creditore di Caio di 1.000 euro per la locazione di un immobile, ha cinque anni di tempo per pretenderli. Se fa trascorrere questo periodo, senza mai chiedere il predetto importo, evidentemente, il suo diritto di credito si estinguerà. A quel punto, Tizio potrebbe, ugualmente, azionare la propria pretesa, ad esempio, con un ricorso per decreto ingiuntivo. Ovviamente, si scontrerebbe con la prescrizione eccepita da Caio che bloccherebbe ogni indebita pretesa.

Prescrizione: parziale mancato esercizio del diritto

Alcuni pensano che la prescrizione operi anche quando è trascorso molto tempo, ma non tutto quello che sarebbe necessario a far estinguere il diritto.

Si pensi ai finanziamenti o ai mutui che si prescrivono dopo 10 anni, decorrenti dall’ultima rata, e che, a volte, sono azionati anche dopo 6 o 7 da questa scadenza.

Ebbene, devi sapere che, ad esempio, la società di cartolarizzazione che ha acquisito il tuo debito, ha sempre dieci anni per agire. Se non l’ha fatto negli otto anni successivi all’ultima rata, comunque, non perde alcun diritto.

Il creditore, quindi, può risvegliarsi anche dopo 9 anni e 11 mesi e non deve, necessariamente, precedere la propria richiesta con qualche ipotetico preavviso.

Prescrizione diritto: l’interruzione

Ricapitolando come funziona la prescrizione, un diritto si estingue se il titolare non lo esercita mai per un determinato periodo di tempo indicato dalla legge. Se però decide di agire, anche poco prima che maturi la prescrizione, ha tutto il potere per farlo legittimamente ed efficacemente. Ebbene, devi sapere che la richiesta del creditore è, altresì, idonea a interrompere la prescrizione.

In pratica, con la richiesta di pagamento (anche una raccomandata a.r), il creditore ha, nuovamente, a disposizione il tempo, inizialmente, concessogli per recuperare la somma dovutagli.

Con l’interruzione, quindi, la prescrizione comincia a decorrere da capo.

Prescrizione diritto: le ipotesi più ricorrenti

Tutti i diritti derivanti da un contratto si prescrivono dopo dieci anni (finanziamenti, mutui, corrispettivo di una vendita, ecc).

In meno tempo, cioè in cinque anni, si estinguono le prestazioni periodiche (ad esempio, i canoni di locazione) o l’azione risarcitoria per un fatto illecito (risarcimento danno contro il condominio, contro il vicino, ecc).

In due anni, invece, si prescrive il diritto all’indennizzo conseguenziale ad un incidente d’auto (lesioni, ammaccature ai veicoli, ecc). Infine, a proposito delle cartelle esattoriali, ricordati che l’atto segue la prescrizione del diritto che esso contempla.

Pertanto, la cartella che contiene tributi diretti o indiretti (Irpef, Iva, ecc) si prescrive in dieci anni; quella relativa alle multe o ai contributi previdenziali, dopo cinque; idem dicasi per le cartelle aventi ad oggetto tributi locali (imu, tasi, tari, ecc).

Pignoramento prima casa: è possibile?

Eventuali limiti al pignoramento della prima casa. La sospensione al tempo del Covid – 19

La sacralità della tua abitazione, acquistata dopo anni di sacrifici oppure ancora da pagare, visto il mutuo trentennale tuttora in corso, ti porterebbe a pensare che sia inviolabile. Ovviamente non mi sto riferendo ad un attacco dei tuoi nemici, stile medioevale, ma alla possibilità che i tuoi creditori possano pignorarla. A questo proposito, saresti convinto che debba esserci, per forza, qualche legge che la protegga dalle grinfie dei tuoi creditori: è così oppure ti sbagli?

Potresti pensare che la tua ex moglie non possa certo pignorarla per il mancato versamento dell’assegno divorzile concordato oppure sei convinto che la finanziaria, dalla quale hai avuto un prestito mai restituito, non possa aggredirla perché è l’unico bene che possiedi. Nel contempo, saresti sicuro che lo Stato, per tutte quelle cartelle esattoriali in sospeso, non abbia la possibilità di procedere esecutivamente nei confronti del tuo immobile. Ad ogni modo, il dubbio ti resta e, pertanto, ti chiedi: il pignoramento della prima casa è possibile?

In questo mio piccolo contributo scritto, lo scopo è quello di chiarirti le idee su questo argomento. Esse sono spesso ingarbugliate dalla miriade di disposizioni normative emanate in tante materie e frequentemente in grado di confondere anche gli addetti ai lavori. Quindi, vediamo insieme se la banca, l’ex moglie o il fisco possono pignorare o meno la tua prima casa. Procediamo?

L’ex moglie può pignorare la prima casa del coniuge?

Dopo un sofferto matrimonio, culminato con la separazione e definito con il successivo divorzio, hai concordato con la tua ex un assegno divorzile in un’unica soluzione. Purtroppo, però non hai provveduto al pagamento della somma pattuita e, per questa ragione, temi che il coniuge possa avanzare pretese, di natura esecutiva, nei tuoi riguardi. In particolare, sei preoccupato che possa pignorare la tua casa, cioè quell’unico immobile, avuto in eredità dai tuoi genitori, nel quale sei andato a vivere dopo il divorzio. Insomma, ti chiedi: l’ex può pignorare la prima casa del coniuge?

La risposta alla predetta domanda è, purtroppo, positiva. La tua ex moglie può infatti pignorare il tuo immobile, anche se si tratta della cosiddetta prima casa, per qualsiasi credito dovesse avere nei tuoi riguardi (in ciò, il caso sopra riportato è solo un esempio). Pertanto, mi dispiace dirtelo, ma non puoi dormire sogni tranquilli se sei debitore del tuo ex coniuge.

La banca può pignorare la prima casa del debitore?

Come debitore di una banca, si possono distinguere due ipotesi: quella in cui l’istituto ti ha concesso il mutuo, che purtroppo non riesci a rendere regolarmente, e il caso in cui la banca ti ha concesso un prestito personale che non hai restituito, in parte o tutto.

Ebbene, in entrambi i casi citati, il creditore ha la facoltà di pignorare il tuo immobile e non c’è alcuna limitazione che possa incontrare, solo perché si tratta della tua abitazione principale. Pertanto, anche per questa evenienza, non sei protetto dal fatto che si tratta dell’unico bene a tua disposizione; la banca o la finanziaria di turno avranno, infatti, la possibilità di pignorare la tua prima casa.

Il fisco può pignorare la prima casa del debitore?

A questo punto, potrai pensare che io sia un menagramo; in fondo, ti sto dando tutte brutte notizie e sto cancellando ogni tua certezza che, invece, avevi sull’inviolabilità della tua abitazione. Eppure, a proposito del fisco e, in particolare, delle iniziative che, per esso, può assumere l’Agente della Riscossione, devi stare più tranquillo.

Per i debiti in questione, infatti, compresi quelli dovuti a seguito delle tante cartelle esattoriali che ti affliggono, non è consentito il pignoramento della prima casa. È la legge [1] a sancire questa regola precisando che, tale limite, opera soltanto alle seguenti condizioni:

  • si deve trattare dell’abitazione civile e accatastata come tale, in cui il cittadino/debitore ha stabilito la sua residenza;
  • non deve essere un immobile di lusso. Per intenderci, una villa classificata catastalmente con la categoria A/8 o, addirittura, un edificio di particolare pregio storico, cioè come quello rientrante nella tipologia A/9, possono essere pignorati;
  • deve essere l’unico immobile di proprietà del contribuente.

Pertanto, il limite scompare se sei proprietario di più immobili. Per evitare che il fisco possa agire indiscriminatamente, dovresti rimanere con un’unica abitazione ed eleggere residenza in quella.

Non dimenticare, inoltre, che in tutti i casi, l’Agenzia delle Entrate Riscossione può pignorare un immobile:

  • soltanto se il debito del cittadino supera l’ammontare di 120.000 euro;
  • se il valore dei beni immobili del debitore sia superiore a 120.000 euro;

Pertanto, se non ricorrono le predette condizioni, può dormire sogni tranquilli.

Pignoramento prima casa e Covid-19

Un piccolo cenno all’attuale situazione normativa, dovuta ai provvedimenti emanati dal governo per fronteggiare l’attuale emergenza sanitaria, è doveroso. Ebbene, è stata stabilita la sospensione dei pignoramenti della prima casa sino al 31 ottobre 2020, cioè per sei mesi successivi all’entrata in vigore della legge [2] che ha convertito il decreto emanato, anche a tale scopo, nel mese di marzo [3].

Pertanto, tutti coloro che hanno in corso un pignoramento della prima casa potranno avere un periodo di relativa calma per questa ragione.

NOTE

[1] Art. 76 co. 1 lett. a) Dpr 602/1973

[2] L. 27/2020 entrata in vigore il 30.04.2020

[3] Art. 54 ter Dl 18/2020

Regalo o donazione con bonifico: quale causale?

Quale causale bisogna scrivere perché il beneficiario di un bonifico non abbia problemi a seguito della donazione

Non sempre ciò che facciamo è legato ad un corrispettivo. Molto spesso le nostre azioni sono eseguite per mero spirito di liberalità e per il generoso desiderio di compiacere qualcuno: si pensi ai regali compiuti in occasione delle festività comandate oppure per celebrare il compleanno di un proprio caro.

In alcuni casi, la donazione ha per oggetto una somma di denaro abbastanza rilevante ed avviene tramite bonifico bancario. Possiamo ipotizzare la madre che, sfruttando i suoi risparmi, regala una cifra consistente al figlio per comprarsi un’auto nuova; oppure il padre che bonifica un certo importo alla figlia, prossima sposa, per l’acquisto dei mobili che arrederanno la nuova abitazione. In tali circostanze, però come è meglio procedere? Per un regalo o una donazione con bonifico, quale causale bisogna scrivere?

La domanda appena posta assale tutti coloro che, pur essendo in regola con il fisco, temono che un’operazione come quella appena descritta possa attirare l’attenzione dell’Agenzia delle Entrate provocando un accertamento tributario, con tanto di sanzione, a carico del beneficiario. In fondo si tratta di un timore, abbastanza, comprensibile, ma che, nel concreto, bisogna valutare attentamente. Pertanto, per sciogliere i tuoi dubbi sull’argomento, in quest’articolo rispondo alle seguenti domande: donare una somma di denaro con bonifico è legale? La donazione con bonifico a un figlio è valida? Se regalo un certo importo a mia figlia con bonifico, il fisco può intervenire con un accertamento?

Donare denaro con bonifico: è legale?

Per legge è possibile effettuare una donazione di denaro a qualcuno. Non è necessario che sia un parente lontano, piuttosto che un figlio o, semplicemente, un amico: la donazione, infatti, sarebbe legittima anche se compiuta a favore di un estraneo, persino se questo fosse un perfetto sconosciuto. Insomma, donare una somma di denaro è consentito dalla legge e nel momento in cui il destinatario del regalo l’accetta, essa si perfeziona senza altro elemento.

A questo punto, però, bisogna fare una precisazione molto importante: donare del denaro è consentito ed è legale, ma non sempre l’operazione compiuta è valida. Vediamo insieme perché.

Donare soldi con bonifico: la donazione è valida?

Quando parliamo di una donazione, non devi mai dimenticare che, tecnicamente, si tratta di un contratto; in pratica c’è da un lato il donante, ad esempio il padre, e dall’altro il donatario, per ipotesi il figlio. Questi pattuiscono che un certo importo vada dal primo al secondo per spirito di liberalità. Essi possono concretizzare quest’operazione mediante, ad esempio, un bonifico bancario.

Devi sapere, però, che a proposito delle donazioni, la legge prevede che debbano realizzarsi, obbligatoriamente, in forma scritta e davanti al notaio (per atto pubblico) [1]. Ciò comporta che la donazione compiuta con un mezzo diverso non è valida.

Esempio

Hai regalato 30.000 euro a tua figlia, inviandole un bonifico. C’è un altro figlio che vorrebbe impugnare questo contratto, stipulato in tale forma, poiché non è d’accordo col favoritismo realizzato a favore della sorella.

Nell’esempio appena riportato, la donazione non è valida poiché il contratto non è stato realizzato con le modalità previste dalla legge. Ciò non toglie che se nessun controinteressato ha voglia o desiderio di impugnarla, essa non sarà intaccata in alcun modo e la figlia in questione potrà utilizzare il denaro, ricevuto col bonifico, senza alcun problema

Donare pochi soldi con bonifico: la donazione è valida?

In questo caso, sto parlando delle donazioni di modico valore. In pratica sarebbero quei regali d’importo non elevato.

Esempio

Il bonifico, di pochi euro, eseguito per il compleanno del fratello che vive all’estero oppure il contributo donato, tramite banca, alla figlia per favorire la vacanza della medesima e dei propri nipoti.

In questi casi, la donazione è perfettamente legale e valida poiché, quando si tratta di somme contenute, la legge [2] non pretende di andare dal notaio.

Regalo o donazione con bonifico: quale causale per il fisco?

Oramai avrai compreso che donare del denaro, tramite bonifico, è assolutamente legale e consentito; tutt’al più, in ragione della consistenza della cifra, potrebbero nascere delle opposizioni, visto che non hai fatto ricorso al notaio; tuttavia, se non c’è in famiglia chi potrebbe contestare l’operazione, non devi temere conseguenze, nemmeno da un punto di vista civilistico.

Ebbene, devi arrivare ad un’identica conclusione anche da un punto di vista fiscale. Infatti, devi sapere che la causale del bonifico, nella quale specifichi che il denaro è donato a tuo figlio o al destinatario da te prescelto, è sufficiente ad escludere che la somma sia di natura reddituale [3]. Per questa ragione, il fisco non può dar corso ad alcun valido accertamento a carico del beneficiario del bonifico; non lo può fare nemmeno se, in ragione della misura della somma, si dovesse trattare di una donazione invalida. È stato, infatti, chiarito che le vicende, di natura civilistica, che riguardano questo tipo di operazione, non possono, certo, attribuire al denaro la caratteristica di reddito non dichiarato.

Pertanto, procedi serenamente al bonifico in questione, specificando in causale che si tratta di un regalo o di una donazione, poiché, con questa motivazione, il beneficiario non potrà avere alcun problema con il fisco.

NOTE

[1] Art. 782 cod. civ.

[2] Art. 783 cod. civ.

[3] Cass. civ. sent. n. 7258/2017

Tribunale e Giudice di pace: prima udienza

Come si avvia un procedimento civile ordinario in Tribunale e cosa può accadere in prima udienza

Almeno in linea generale, quasi tutti hanno un’idea di cosa sia una causa civile. Si sa, ad esempio, che per avviare un’azione legale è necessario rivolgersi ad un avvocato; è abbastanza noto, altresì, che bisogna presentarsi dinanzi ad un magistrato e che il contenzioso durerà per un certo tempo. È meno chiaro, invece, in cosa consiste un procedimento civile ordinario in Tribunale e in quali fasi esso si realizza. Devi sapere, pertanto, che c’è quella introduttiva, dove la causa si avvia; essa è seguita dalla fase istruttoria, dove sono raccolte, ad esempio, le prove testimoniali; per poi arrivare alla conclusiva che culminerà nella sentenza. Comunque, in ogni causa, c’è un momento inevitabile: la prima udienza di comparizione, a proposito della quale è importante chiedersi: in Tribunale e dal Giudice di pace cosa accade nella prima udienza?

Ti stai ponendo questa domanda poiché ti sei rivolto a un avvocato per avviare un contenzioso verso il tuo vicino di casa. Sebbene i rapporti col professionista siano buoni, non sei riuscito a capire, però, quando inizierà, effettivamente, la causa e cosa accadrà in primo luogo. Ad esempio, anche solo per semplice informazione, vorresti comprendere meglio quali facoltà è possibile esercitare in occasione della prima udienza del tuo procedimento. Pertanto, ti chiedi: quando e come inizia un procedimento civile ordinario? Cosa accade nella prima udienza e cosa è possibile chiedere in quell’occasione? Troverai le risposte continuando a leggere quest’articolo.

Procedimento civile: quando inizia?

Un processo civile ordinario, quale ad esempio quello per chiedere un risarcimento del danno oppure per opporti a un decreto ingiuntivo, si introduce con la notifica di un atto di citazione. Si tratta di un documento che prepara il tuo legale, all’interno del quale egli illustra le ragioni della tua domanda, i motivi per cui la stessa debba essere accolta e che invia alla controparte.

Nell’atto di citazione, inoltre, è specificata la data di comparizione. In altri termini, il tuo avvocato sceglie il giorno in cui dovrà essere svolta la prima udienza dinanzi all’ufficio giudiziario indicato secondo competenza. Si tratta, però di una data che potrebbe essere spostata. Infatti, la cancelleria del Tribunale o del Giudice di pace, tenuto conto del carico di lavoro, nell’assegnare la tua causa al giudice designato, potrebbe fissare la prima udienza di comparizione anche dopo mesi (in genere ciò accade per i procedimenti dinanzi al Giudice di pace, essendo degli uffici, particolarmente, congestionati). Pertanto, sarà questo il momento in cui si svolgerà la prima udienza.

Procedimento civile: devo essere presente in prima udienza?

Nella prima udienza di un procedimento civile dinanzi al Tribunale, la presenza delle parti non è prevista e tanto meno è necessaria, a differenza delle cause dinanzi al Giudice di pace, dove invece è contemplata, ma quasi sempre disattesa. Qualcuno potrebbe pensare che possa essere un’occasione per far incontrare i soggetti in causa e per favorirne la conciliazione. In genere, però, l’ipotesi di una transazione viene vagliata in precedenza e, comunque, la prima udienza non è, certamente, l’unico momento in cui è possibile trovare una risoluzione amichevole alla vicenda. Gli avvocati, infine, sono restii a farsi accompagnare dal proprio cliente, per non essere in nessun modo deconcentrati nell’espletamento dell’attività da compiere.

Procedimento civile: cosa accade nella prima udienza?

Secondo quanto è stabilito dalla legge [1], nel corso della prima udienza il giudice verifica, innanzitutto, la regolarità del contraddittorio, cioè se tutte le parti coinvolte nella causa sono state correttamente chiamate in giudizio. Non è detto, infatti, che la tua controparte si presenti (ad esempio, nelle azioni risarcitorie dei veicoli, generalmente, compare solo l’assicurazione); tuttavia è essenziale che sia stata chiamata regolarmente e che, quindi, abbia scelto di essere assente (cosiddetta contumacia).

In secondo luogo, viene verificato se sia necessario chiamare in giudizio un altro soggetto, ove mai l’attore, cioè colui che ha introdotto la causa, lo ritenesse necessario alla luce delle difese svolte dalla controparte. Si pensi al caso in cui il tuo vicino chieda, a sua volta, un risarcimento nei tuoi confronti; si tratterebbe di un’ipotesi dove il tuo avvocato avrebbe la possibilità di far intervenire nel procedimento la compagnia che assicura la tua casa.

Infine, nei procedimenti dinanzi al Giudice di pace, gli avvocati delle parti formulano le proprie richieste istruttorie, ad esempio indicando i testimoni e precisando le circostanze per le quali sono chiamati a rispondere. Viceversa, nelle cause davanti al Tribunale, a chiusura della prima udienza, i legali chiedono che siano concessi dei termini per meglio precisare le proprie istanze e gli elementi probatori a supporto delle proprie difese. Cerchiamo di capire insieme di cosa si tratta.

Procedimento civile: a cosa servono i termini nella prima udienza?

Devi sapere che il procedimento civile è, sostanzialmente, documentale, tant’è che prima che venisse introdotto il cosiddetto processo telematico, i fascicoli delle cause erano, solitamente, molto voluminosi. In ragione di questa caratteristica, la richiesta dei termini che avviene in prima udienza, assolve allo scopo di depositare, all’attenzione del giudice, alcuni atti che torneranno utili per chiarire la vicenda, per meglio spiegare le proprie ragioni e per precisare i mezzi probatori a supporto delle proprie istanze. In particolare, a chiusura della prima udienza e su richiesta degli avvocati, vengono concessi:

  • un termine perentorio di 30 giorni per depositare un atto, denominato memoria. All’interno di esso l’avvocato potrà, sostanzialmente, integrare le proprie difese. Ad esempio, potrà approfondire la questione di diritto oggetto della controversia, alla luce dei precedenti giurisprudenziali citati dalla controparte;
  • un secondo termine, anch’esso tassativo, di ulteriori trenta giorni, per produrre un’altra memoria scritta. In questa il tuo legale potrà replicare a quanto è stato illustrato dalla controparte, indicare eventuali testimoni da ascoltare e/o depositare documenti a sostegno della tua posizione;
  • un ultimo termine di venti giorni, sempre inderogabile, per specificare una prova contraria a quella richiesta dalla controparte, ad esempio, indicando un testimone per contrastare quanto vorrebbe dimostrare l’avversario con i proprio nominativi.

Trascorso il periodo delimitato dai predetti termini, il giudice fisserà la seconda udienza. In essa, per ipotesi, saranno ascoltati i testimoni indicati. Qualora non fosse necessaria alcuna attività istruttoria, in quell’occasione, le parti saranno, invece, invitate a precisare le proprie conclusioni in prospettiva della sentenza.

Come dividere un conto cointestato?

Cointestare un conto è semplice e utile: ma cosa accade quando bisogna dividerne il saldo?

Tra gli strumenti che utilizziamo per la gestione e l’amministrazione del nostro denaro c’è sicuramente il conto corrente bancario. Su questo depositiamo le somme di nostra pertinenza (ad esempio, il proprio stipendio oppure i proventi della propria attività) che possiamo conservare con serenità e gestire facilmente; insomma, una vera e propria comodità che, spesso, si caratterizza per la cosiddetta cointestazione. In tal caso, i contraenti sono due: magari madre e figlio, la prima di una certa età e poco pratica, il secondo più giovane e molto più attivo e sveglio. Mediante il conto corrente cointestato, la gestione sarà molto più semplice, essendo realizzabile da entrambe i cointestatari. Ma se la madre dovesse morire, cosa accadrebbe? Nel caso descritto, come si deve dividere un conto cointestato?

La domanda non è banale, poiché in tale circostanza possono esserci altri eredi della defunta interessati alla successione delle somme presenti sul conto e non è raro che, in un caso come questo, i dissidi e le incomprensioni siano assai frequenti. Da un lato c’è il cointestatario che non vorrebbe dividere l’intero saldo, ma, eventualmente, soltanto la metà; dall’altro ci sarebbero, ad esempio, gli altri figli che, invece, sostengono che la madre era la titolare effettiva di tutti i fondi presenti in banca. Insomma, tutti presupposti sufficienti e necessari a far sorgere una vertenza da portare in Tribunale. Per evitare che ciò accada oppure per dare risposta a te che lo chiedi, diventa essenziale rispondere alla domanda da cui nasce questo articolo.

Conto cointestato: cosa vuol dire?

In questa particolare ipotesi di conto corrente bancario, i titolari del medesimo sono più di uno. Essi, di regola, avranno la possibilità di operare senza il consenso esplicito dell’altro (cosiddetta firma disgiunta): ad esempio, Tizio potrà effettuare un bonifico senza l’autorizzazione scritta di Caia. Non mancano, però, i casi in cui la gestione avviene in comune (cosiddetta firma congiunta): ad esempio, Sempronio non può chiedere alla banca l’emissione di un assegno circolare senza il consenso di Mevia.

In tutti i casi descritti, il vantaggio principale è relativo ai costi: invece di affrontare quelli necessari all’apertura di un doppio conto, sarà sufficiente coprire soltanto quelli dell’unico in essere. A questo beneficio, nel caso di conto corrente cointestato a firma disgiunta, si aggiungerebbe quello dell’operatività, evidentemente realizzabile, in piena autonomia, da tutti gli intestatari.

Ricordati, infine, che non è necessario che i titolari abbiano un rapporto di parentela, più o meno stretto, per aprire un conto corrente cointestato: è esclusivamente sufficiente la volontà delle parti, anche se giuridicamente estranee tra di loro (ad esempio, due amici).

Conto cointestato: di chi sono i soldi?

Per rispondere alla presente domanda basta rifarsi alla legge: secondo quest’ultima [1], nel caso di conto corrente cointestato, allorché sia prevista l’operatività separata, i contitolari sono considerati, solidalmente, creditori o debitori di tutte le somme in esso presenti. Inoltre, la legge prosegue precisando che, nei rapporti interni tra i vari creditori di un’obbligazione in solido, le parti di essa si presumono eguali [2]. In termini più semplici, ciò significa che, nel caso di conto corrente cointestato, le somme in esso presenti si presumono di proprietà dei vari contitolari, ma in parti uguali. Si tratta di una conclusione che trova pacifico riscontro nella giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione [3].

Se questa è la risposta alla domanda iniziale (conto cointestato: di chi sono i soldi?), resta da chiarire un dubbio non di poco rilievo: è ammessa la prova contraria? In altre parole, è possibile dimostrare che i fondi del conto appartengono esclusivamente all’uno e non anche all’altro contitolare?

Conto cointestato: la divisione

Nell’ipotesi avanzata inizialmente, abbiamo visto che la madre, contitolare assieme al figlio del conto in banca, è purtroppo deceduta. Abbiamo, inoltre, ipotizzato che ci fossero degli altri eredi e che gli stessi avessero avanzato pretese sull’intera giacenza presente sul conto. Il figlio, invece, partendo dalla presunzione di comproprietà dei soldi in banca, vorrebbe dividere coi fratelli soltanto la metà del saldo. In un caso come questo, è consentito agli altri eredi dimostrare il contrario?

La risposta è positiva: lo afferma la stessa giurisprudenza già richiamata in precedenza (vedi nota [3]), secondo la quale alla presunzione di contitolarità delle somme presenti sul conto è possibile dare dimostrazione contraria; tuttavia, la parte che dovesse avanzare pretese, in contrasto col principio iniziale, avrebbe l’onere di provare il proprio diritto; potrebbe farlo anche attraverso presunzioni, il cui effetto sarebbe quello di attestare una situazione diversa da quella risultante dalla cointestazione.

Per fare un esempio di quanto è stato appena affermato è sufficiente riferirsi ad una recente sentenza della Cassazione [4]. Secondo quest’ultima, la mancanza di un reddito adeguato di uno dei contitolari, magari anche di giovane età, potrebbe dimostrare l’impossibilità, per questi, di essere proprietario, anche in parte, delle somme presenti sul conto della madre cointestataria; oppure si potrebbe arrivare ad identica conclusione provando che la cointestazione era stata prevista al solo scopo di facilitare la gestione dei rapporti tra le parti.

Pertanto, in presenza di un conto cointestato, aperto tra madre e figlio oppure tra marito e moglie in separazione dei beni ovvero tra due amici, è sempre consentito dare dimostrazione contraria alla presunzione di comproprietà delle somme in esso presenti. È, quindi, possibile che, alla chiusura del rapporto, avvenuta alla morte di un contitolare oppure alla separazione tra le parti, si abbia diritto alla divisione del saldo in maniera del tutto diversa dall’eventuale 50% a testa.

NOTE

[1] Art. 1845 cod. civ.

[2] Art. 1298 cod. civ.

[3] Cass. civ. sent. n. 28839/2008 – 4496/2010 – 18777/2015

[4] Cass. civ. ord. n. 11375 del 29.04.2019

Permessi 104: posso usarli per un week end?

I permessi della legge 104 possono essere sfruttati per andare in vacanza o un week end? Ecco le regole sul come comportarsi durante i permessi.

Non è infrequente il caso in cui il proprio genitore abbia bisogno della nostra assistenza. Se sei una di quelle persone che deve assolvere a questo compito, purtroppo sai bene sulla tua pelle che si tratta di un impegno gravoso e che richiede molta disponibilità. Sai anche che per assistere tua madre invalida, devi togliere tempo a te stesso, alla tua famiglia ed anche, volendo e potendo al tuo lavoro. Per questa ragione, usufruisci dei famosi benefici previsti dalla legge 104 [1] che ti consentono, quale lavoratore dipendente, di avere dei permessi retribuiti per assistere il tuo genitore bisognoso. Però, nonostante ciò, il tempo a tua disposizione non è mai sufficiente: infatti come spesso accade, il lavoro ti assorbe quasi totalmente e nel tempo libero vorresti avere la possibilità di fare altro e non di dedicarti principalmente a tua madre. Vorresti, quindi, sapere se ad esempio potresti usufruire dei permessi della legge citata per andare in vacanza, magari anche per un solo giorno, senza con ciò abbandonare il proprio genitore, ma soltanto per sfruttare un congedo lavorativo per uno scopo personale più che legittimo: ebbene puoi farlo? In particolare, la domanda specifica che ti stai ponendo è la seguente: utilizzando i permessi previsti dalla legge 104 posso usarli per un week end?

Permessi 104: come e quando dare assistenza

I permessi previsti e concessi ai sensi della legge 104 non sono ovviamente un premio e tanto meno un’agevolazione indiscriminata. Il lavoratore che ne usufruisce li ottiene perché, ad esempio, deve dare assistenza alla sorella o al genitore disabile. Per questa ragione, può anche non andare a lavorare nei giorni del permesso, pur continuando a percepire la regolare retribuzione. Ebbene, nonostante il meritevole scopo che giustifica la descritta eccezione, il lavoratore non è tenuto ad assistere il proprio parente per l’intera giornata (come si suol dire, H24) e tanto meno proprio nelle ore in cui, diversamente, sarebbe stato impegnato sul lavoro. La cosa importante, infatti, è quella di un’assistenza continuativa ed esclusiva a favore della persona bisognosa di cure, circostanza questa che può tranquillamente realizzarsi anche compatibilmente con le esigenze personali del lavoratore in permesso. Questa conclusione è ormai pacificamente sostenuta dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione [2], secondo la quale il lavoratore predetto:

  • durante i giorni di permesso può anche ritagliarsi uno spazio per soddisfare delle proprie esigenze personali;
  • durante i giorni di permesso, al pari di quanto avviene durante quelli lavorativi, deve prestare l’assistenza dovuta con la necessaria flessibilità. Non è importante, pertanto, quali e quante ore occorrano per assistere il genitore in difficoltà (ad esempio, non è obbligatorio assisterlo proprio nelle ore in cui normalmente lavori), ma è sufficiente che questi riceva aiuto con continuità.

Ed allora, ritornando al quesito posto inizialmente, se per esigenze personali vuoi farti una piccola vacanza, magari sfruttando proprio il giorno di permesso, ben sapendo che la cosa non creerà alcun disagio o difficoltà al genitore da assistere, puoi partire serenamente sapendo di non rischiare il licenziamento o la denuncia per truffa?

Permessi: posso andare in vacanza?

In questo caso, anche se si parla di esigenze personali e nel concreto la tua assenza per un giorno non ha determinato alcuna grave conseguenza o mancanza al parente assistito, se sfrutti i permessi della legge per andare in vacanza, stai violando la legge stessa. Anche in questo caso, è la Cassazione [3] a chiarire il perché di questa conclusione. Nel caso in esame, infatti, appare evidente che se hai utilizzato il giorno di permesso per andare in vacanza, hai disatteso completamente l’assistenza per la quale ti era stato concesso il permesso. Se eri altrove (ad esempio a Ischia oppure a Parigi) e sei tornato il giorno dopo, evidentemente il tuo parente non ha avuto alcun aiuto. Non si tratta, quindi, di semplice flessibilità interpretata con rigore e severità, ma della mancanza totale del presupposto su cui si basa l’agevolazione concessa dalla legge 104. Pertanto, se durante il giorno di permesso, magari dopo essere stati da tua madre, vai a fare la spesa o ad accompagnare tuo figlio alla partita del campionato giovanile a cui partecipa, non è certo reato. Se invece te ne parti per andare a prendere il sole, attento a quel che hai fatto: potresti rischiare anche il licenziamento [4].

NOTE

[1] Art. 33 Legge 104/92 ed Art. 42 D.lgs 151/2001

[2] Cass. pen. sent. n. 4106/2016

[3] Cass. pen. sent. n. 54712/2016

[4] Cass. civ. sent. n. 18293/2016

Se la casa è vuota pago i rifiuti?

La tassa sui rifiuti: perché si può pagare anche per gli immobili disabitati.

Imu, tasi, tari e tares, fatte salve le previste esenzioni, sono le tasse che il proprietario possessore è chiamato a versare per  un immobile.

Ebbene, la tassa sui rifiuti è sicuramente una delle più conosciute dal cittadino ed è tra le più onerose. Essa si deve versare, anno per anno e si basa sulla produzione dei rifiuti che avviene nelle comuni abitazioni.

In particolare, tra gli elementi che determinano l’ammontare della tassa, bisogna considerare il numero dei residenti, e nello specifico il nucleo familiare che abita nell’immobile da tassare, ma anche la superficie abitativa della casa. Seguendo le prescrizioni dei regolamenti comunali e combinando gli elementi appena citati, otterremo l’importo dovuto per la tassa sui rifiuti.

E se la casa è disabitata? Il cittadino proprietario deve pagare la tassa sui rifiuti  anche se l’immobile è vuoto e senza residente alcuno?

Che cos’è la Tari?

La Legge di stabilità del 2014 [1], ha istituito e disciplinato la Tari, affermando che il presupposto di questa tassa è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o di aree scoperte, a qualsiasi uso adibiti, suscettibili di produrre rifiuti urbani.

Tuttavia, la legge in questione ha previsto, la possibilità, per i comuni, di stabilire esenzioni o riduzioni tariffarie della Tari, in alcune ipotesi particolari [2], quando ad esempio la casa è abitata da un unico occupante oppure in tutti gli altri casi individuati all’interno del regolamento comunale approvato dallo stesso comune [3].

Devo pagare rifiuti se la casa è disabitata?

Se osserviamo l’orientamento giurisprudenziale, si deve concludere che la tassa sui rifiuti, deve essere pagata in tutti i casi ed indipendentemente dall’occupazione o meno dell’immobile tassato.

In particolare nel 2013, la Cassazione ha legittimato la pretesa del Comune di Bologna di applicare la tassa in esame, a carico del proprietario di un appartamento inutilizzato [4]. La stessa conclusione è stata riscontrata in altre decisioni giurisprudenziali [5], rispetto alle quali, quelle contrarie, rappresentano una vera e propria eccezione.

A tal proposito, nel settembre del 2014, l’Istituto per la finanza e l’economia locale (IFEL), organo che fa riferimento all’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI), nel riportarsi alla normativa di riferimento, ha precisato che la tassa sui rifiuti è applicabile e dovuta sugli immobili, che sono suscettibili di produrre dei rifiuti, indipendentemente dall’occupazione o meno degli stessi.

Tuttavia, non bisogna dimenticare ed è opportuno ricordare, che il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel 2013, ha raccomandato ai comuni italiani di non applicare la tassa sui rifiuti agli immobili vuoti e privi degli allacciamenti alle varie forniture (acqua, luce gas).

Detto ciò, nella realtà, i comuni, anche frequentemente, esentano dalla tassa sui rifiuti, almeno parzialmente, i proprietari degli immobili disabitati e privi dei necessari allacciamenti (la cui assenza rende di fatto inabitabile la casa e quindi non suscettibile di produrre rifiuti)

Tuttavia per essere sicuri di non dover nulla o almeno in parte, per un immobile vuoto, sarà necessario ed opportuno consultare quanto prevede in merito, il regolamento del comune di ubicazione dello stesso. Potrete farlo esaminando il sito dell’ente o,  in mancanza e per avere migliori chiarimenti, recandovi presso la sede del comune.

NOTE

[1] Art. 1, comma 639 e 641 Legge 147/2013

[2] Art. 1, comma 659 Legge 147/2013

[3] Art. 1, comma 660 Legge 147/2013

[4] Cass. ord n. 18022/2013

[5] Cass. sent. n. 16785/2002 – 9920/2003 – 22770/2009 – 1850/2010

Le tasse sulla casa donata ai figli

Se doni la casa a un figlio, le tasse sono molto agevolate.

 

Le donazioni provenienti dai propri genitori sono assai ricorrenti. Spesso i figli ricevono un “regalo immobiliare” dal padre o dalla madre, allo scopo di essere aiutati o semplicemente per soddisfare il loro intento di dividere il proprio patrimonio prima di andare “nell’al di là”.

Comunque a prescindere dalle motivazioni che spingono alla donazione, scopo di questo articolo è quello di verificare la tassazione a cui è soggetta la donazione di  un bene immobile al proprio figlio.

 

Si può donare una casa?

Certamente. La donazione si realizza mediante un contratto, in cui da una parte c’è il donante/proprietario, che dona, e dall’altra il ricevente/donatario, che accetta.

Il descritto trasferimento avviene attraverso un atto pubblico, cioè preparato e sottoscritto con l’assistenza di un notaio ed in presenza di due testimoni (questi sono quasi sempre due impiegati o collaboratori dello studio notarile a cui ci si rivolge).

In sintesi, dopo aver predisposto, fatto sottoscrivere e autenticato l’atto, si realizzerà il trasferimento di proprietà, a titolo assolutamente gratuito, non contemplando alcun prezzo a favore del donante/proprietario.

Infine, la donazione compiuta dovrà essere trascritta nei pubblici registri immobiliari, affinché sia conoscibile ed opponibile a chiunque.

Quali sono le tasse per la donazione della casa a mio figlio?

Nell’ipotesi della donazione di una casa ai propri figli, la tassazione prevista dalla Stato italiano è molto agevolata.

Infatti, l’imposta sulla donazione è praticamente pari a 0, poiché dovuta soltanto se  l’immobile donato supera, come valore il milione di euro (€ 1000.000). Si dovrebbe trattare, pertanto, di un immobile di grande rilievo e, in tal caso, l’imposta andrebbe calcolata soltanto sull’eccedenza rispetto alla detta somma. In questa circostanza il milione di euro è considerato una franchigia.

Accertato che nella pratica, l’imposta sulla donazione è raramente applicabile, bisogna, però, considerare, altre due tasse da calcolare e versare:

  • l’imposta ipotecaria nella misura del 2%;
  • l’imposta catastale nella misura del 1%.

Il calcolo delle predette imposte deve essere fatto sulla base del valore dell’immobile.

Tuttavia, se volete “regalare” la casa a vostro figlio, e la stessa diventerà la “prima casa” per il medesimo, anche queste l’ipotecaria e la catastale, saranno agevolate: esse dovranno essere calcolate e versate in misura ridotta, pari ad euro 200 ciascuna. Inoltre, l’agevolazione riconosciuta e ricevuta, non impedirà al donatario (figlio e/o figlia) di accedere al predetto regime agevolato, nell’ipotesi di una futura compravendita.

Infine, in presenza di una donazione a favore dei propri figli, se il valore dell’immobile ceduto non supera il 1.000.000 di euro, non è dovuta neanche l’imposta di registro [1].

 

Quali tasse devo per la donazione a mio figlio, con riserva di usufrutto?

Anche in questo caso, si deve partire dal presupposto che le tasse vanno calcolate e versate sul valore del bene donato.

Ovviamente, se ci si riserva l’usufrutto a vita, abbiamo un bene di consistenza economica nettamente inferiore a quello “pienamente” donato.

È essenziale, quindi, stabilire il valore della nuda proprietà e, in quest’ottica, la legge [2] fa riferimento a più elementi: gli anni del donante/usufruttuario, il valore catastale del bene “regalato”, l’aspettativa di vita dell’usufruttuario (prendendo in considerazione un coefficiente numerico).

Valorizzata in tal modo la nuda proprietà, si calcoleranno le tasse, nel rispetto delle aliquote riportate in precedenza (ad esempio, se il valore della nuda proprietà non supera il milione di euro, non dovranno essere versate l’imposta di donazione e di registro, mentre saranno previste quella ipotecaria e catastale, nella misura del 2% e del 1%)

 

NOTE

[1] Agenzia delle Entrate circ. n. 44/E del 07.10.2011.

[2] Decr. Min. Economia del 23.12.2013, in Gazz. Uff. n. 303 – Dpr 131/1986.

Se mi chiamano come testimone, posso non andarci?

Quali sono i doveri del testimone nel processo civile. È obbligatorio presentarsi e dire la verità.

 

La prova testimoniale è assai diffusa nella pratica per arrivare a dimostrare le proprie ragioni nell’ambito di una causa. In buona sostanza, il testimone è una persona che ha assistito a determinati accadimenti (ad esempio, il tradimento del marito, il sinistro automobilistico, ecc) e pertanto il suo compito diventa determinante per il buon esito della lite giudiziaria.

Ma senza il consenso del testimone, egli può essere citato come tale in un processo civile?

 

Per fare il testimone devo dare il mio consenso?

Assolutamente no. Se una parte in causa decide che le vostre dichiarazioni o i vostri ricordi potrebbero essere decisivi per risolvere favorevolmente il contenzioso, può tranquillamente citarvi come testimone, senza il vostro assenso.

Tale compito sarà di fatto eseguito dall’avvocato il quale, secondo le indicazioni del proprio cliente, citerà il testimone, precisandone le generalità (nome, cognome, residenza, ecc) e le domande (tecnicamente definite articoli di prova) a cui dovrete rispondere.

Posso non presentarmi?

Assolutamente no. Testimoniare è un dovere, fermo restando che una volta comparsi in Tribunale o dal Giudice di pace potrete anche non ricordare o non sapere nulla dei fatti oggetto della causa.

Sarete chiamati a comparire in un’udienza, appositamente fissata dal giudice per ascoltarvi, e sarete informati di tutto ciò, attraverso un atto denominato “intimazione a testimoniare”, inviatovi dal legale che via ha indicato quale testimone.

In quest’atto troverete tutti gli estremi della causa (nome delle parti, ufficio giudiziario dove comparire, giorno ed ora dell’udienza, ecc), ad eccezione delle domande su cui dovrete rispondere.

Se nonostante ciò, non comparirete, il giudice, su richiesta delle parti in causa ed in particolare di quella che vi ha indicato quale testimone, rinvierà il processo ad un’udienza successiva, per consentire la vostra presenza.

Ricordatevi che il giudice, dopo la ripetuta assenza del testimone regolarmente citato potrà disporre l’accompagnamento coattivo del medesimo (ad esempio, tramite i carabinieri) per l’udienza successiva, stabilendo anche una sanzione pecuniaria a carico dello stesso [1].

In buona sostanza, dovrete rassegnarvi ed andare a testimoniare.

È obbligatorio rispondere alle domande?

Quando sarete nell’aula di udienza, a un certo punto sarete chiamati per essere identificati e per impegnarvi a dire la verità e a non nascondere nulla di quanto è a vostra conoscenza.

Fatto ciò sarete, di volta in volta, sottoposti alle varie domande oggetto della testimonianza, alle quali sarete semplicemente obbligati a rispondere secondo verità. Se non ricorderete nulla di quanto vi sarà chiesto, risponderete non ricordo. Se non sarete a conoscenza delle vicende in questione, risponderete non so. Insomma sarete obbligati a dire semplicemente la verità: in mancanza potreste essere accusati del reato di falsa testimonianza [2].

Al termine,  vi sarà riletto quanto da voi dichiarato. Dopo aver confermato e sottoscritto il verbale della deposizione, con il permesso del giudice, potrete tornarvene a casa.

NOTE

[1] Art 255 cod. civ.

[2] Art. 372 cod. pen.

La cartella è nulla senza una notifica valida

Se la notifica è nulla, la cartella è annullabile. Lo ha confermato la Commissione Tributaria di Napoli. Non rottamate le cartelle nulle.

 

Un mio assistito, consultando il proprio estratto di ruolo, ha riscontrato alcune cartelle esattoriali che non gli erano mai state notificate. Attivatosi presso Equitalia, non ha ricevuto alcuna soddisfazione.

Dopo essersi rivolto al sottoscritto, abbiamo fatto ricorso ed è stato accolto.

La Commissione Tributaria Provinciale di Napoli [1] ha verificato che le cartelle esattoriali contenute nell’estratto di ruolo del mio cliente, non erano mai state ricevute validamente. In particolare, nel caso esaminato e discusso, le cartelle erano state depositate presso la casa comunale, poiché il destinatario era risultato temporaneamente assente (in buona sostanza le cartelle erano arrivata un giorno in cui non era in  casa). Tuttavia il mio cliente, non era stato informato del predetto deposito con la dovuta successiva lettera raccomandata, prevista dalla legge in questi casi [2].

La Commissione, ha rilevato i predetti vizi, ha annullato le cartelle e ha condannato Equitalia al rimborso delle spese di giudizio. In buona sostanza, vittoria piena !!!!

Posso impugnare le cartelle nell’estratto di ruolo?

Assolutamente si. Lo conferma la Cassazione  [3] secondo la quale….è ammissibile l’impugnazione della cartella (e/o del ruolo) che non sia stata (validamente) notificata e della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo…..

Quindi se vi accorgete che nell’estratto di ruolo ci sono cartelle mai ricevute, potete e dovete fare ricorso per annullarle.

Ricordatevi, inoltre, che non ci sono termini per fare ricorso. La stessa Cassazione citata ha precisato, infatti, che …ove l’atto non risultasse (validamente) notificato, i termini non hanno neppure iniziato a decorrere….inoltre ….l’omessa comunicazione, nei modi di legge, del provvedimento recettizio (nella specie l’atto tributario) comporta il mancato decorso dei termini d’impugnativa e impedisce che l’atto diventi inoppugnabile…

Mi conviene rottamare o rateizzare le cartelle nulle?

Assolutamente no, per i motivi appena esposti. Sarebbero soldi persi. Rivolgetevi ad un legale esperto e competente, fate ricorso e otterrete ragione!!!!

[1] CTP di Napoli sent. n. 3523.2017.

[2] Art. 140 cod. proc. civ.

[3] Cass. Sez. Un. sent. n. 19704 del 02.10.2015.