Contestazione crediti vecchio amministratore e legittimazione processuale del nuovo

Per proporre alcune liti, l’amministratore ha bisogno della preventiva o successiva autorizzazione dell’assemblea.

In ambito condominiale, al termine del mandato, non è raro che restino delle pendenze con l’amministratore. Ad esempio, potrebbe trattarsi di alcune anticipazioni affrontate in nome e per conto del fabbricato oppure del compenso per l’opera professionale. Ebbene, In questi come in altri casi, in mancanza di ogni accordo sulla vicenda, l’ex amministratore, come qualsivoglia creditore, munito della prova del proprio diritto, potrebbe chiedere ed ottenere un decreto ingiuntivo a carico del condominio.

È quanto è accaduto nella lite, appena culminata, dopo due gradi di giudizio, con la sentenza n. 1214 del 16 novembre 2022 della Corte di Appello di Torino. Tuttavia, durante il contenzioso, sia in prima che in seconda istanza, la questione principale affrontata non ha riguardato il merito del credito del vecchio amministratore, bensì la legittimazione processuale del nuovo.

Prima, però, di comprendere come gli uffici piemontesi hanno risolto tale problematica, come sempre, è opportuno approfondire il caso concreto.

Contestazione crediti vecchio amministratore e legittimazione processuale del nuovo: il caso concreto

Secondo la narrazione offerta dalla sentenza in commento, al termine del mandato, l’ex amministratrice di un condominio torinese aveva un credito nei confronti del fabbricato. Nello specifico si trattava del corrispettivo per l’opera professionale e di alcune anticipazioni effettuate per conto e nell’interesse dell’edificio. L’ammontare richiesto era di circa 7.500 euro, per i quali la ricorrente, non avendo avuto soddisfazione in via stragiudiziale, chiedeva ed otteneva un decreto ingiuntivo.

Avverso tale provvedimento, il condominio, nella persona del nuovo amministratore, proponeva opposizione, contestando il merito del diritto della controparte nonché eccependo, in compensazione, un versamento già effettuato a favore della parte opposta.

Il Tribunale di Torino, però, decideva per il rigetto della domanda, confermando il decreto. Secondo l’ufficio piemontese, infatti, l’opposizione era inammissibile. L’amministratore del fabbricato non aveva alcuna legittimazione a proporre quest’azione legale.

Il conseguente appello era, quindi, proposto allo scopo di ribaltare il precedente verdetto. In tale sede, il nuovo amministratore evidenziava il verbale di assemblea, già prodotto in primo grado, in cui l’assemblea invitava il proprio rappresentante a rispondere, negativamente, alle istanze dell’ex mandatario ed a chiedere a questi, persino, un risarcimento. Secondo, quindi, la tesi dell’appellante, tale verbale era la prova che l’opposizione al decreto era stata avanzata in esecuzione della volontà assembleare.

Nonostante ciò, purtroppo per l’appellante, la Corte di Appello di Torino ha confermato l’inammissibilità dell’azione proposta.

La legittimazione processuale attiva dell’amministratore di condominio

Secondo il codice civile, l’amministratore di condominio può agire in giudizio contro i condòmini oppure verso terzi, nei limiti delle proprie attribuzioni attribuitegli dalla legge o dal regolamento comune <<Nei limiti delle attribuzioni stabilite dall’articolo 1130 o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall’assemblea, l’amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condomini sia contro i terzi (art. 1131 cod. civ.).

In altri termini, quindi, ove la controversia dovesse riguardare una delle attribuzioni dell’amministratore, questi potrebbe procedere senza alcuna preventiva autorizzazione assembleare e/o una successiva ratifica, conferendo, altresì, la procura ad litem al difensore <<1) eseguire le deliberazioni dell’assemblea, convocarla annualmente per l’approvazione del rendiconto condominiale di cui all’articolo 1130 bis e curare l’osservanza del regolamento di condominio; 2) disciplinare l’uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell’interesse comune, in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a ciascuno dei condomini; 3) riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni; 4) compiere gli atti conservativirelativi alle parti comuni dell’edificio (art. 1130 cod. civ.)>>.

Nel caso in commento, l’amministratore, senza alcuna esplicita autorizzazione, nemmeno sotto forma di successiva ratifica, aveva proposto opposizione a un decreto ingiuntivo emesso a carico del condominio per alcuni crediti del vecchio mandatario. Ebbene, tale lite poteva essere annoverata tra quelle rientranti nelle attribuzioni del rappresentante dell’edificio?

Vediamo come ha risposto la Corte di Appello di Torino.

Contestazione crediti vecchio amministratore e legittimazione processuale del nuovo: i presupposti

Per la Corte di Appello di Torino, nel solco della giurisprudenza della Cassazione, la lite avente ad oggetto dei crediti contestati del vecchio amministratore non rientra tra quelle per le quali, in ragione delle proprie attribuzioni, il nuovo mandatario può agire senza alcuna autorizzazione assembleare <<Una controversia riguardante i crediti, contestati, del precedente amministratore revocato non rientra tra quelle per le quali l’organo amministrativo può ritenersi autonomamente legittimato ad agire: tale principio di diritto è stato chiaramente affermato dalla Suprema Corte, con la sentenza C. Cass., Sez. 2, n. 2179 del 31 gennaio 2011, Rv. 616487 – 01>>. È per questo motivo, quindi, che l’opposizione proposta è stata dichiarata inammissibile.

L’ufficio piemontese ha, quindi, confermato che non c’era stata alcun’assemblea che aveva legittimato il nuovo amministratore. A tale riguardo, la riunione, in cui si invitava l’amministratore a replicare alle richieste stragiudiziali del rappresentante uscente, non poteva parificarsi ad un’autorizzazione a proporre la successiva opposizione.

Non era stata, nemmeno, rinvenuta una successiva ratifica dell’operato del mandatario <<ove si sia costituito in giudizio senza la preventiva autorizzazione dell’assemblea, ottenere la necessaria espressa ratifica del suo operato da parte dell’assemblea stessa, per evitare la pronuncia di inammissibilità dell’atto di costituzione (così C. Cass., SS.UU, sentenza n. 18331, del 6 agosto 2010, Rv. 614419 – 01)>>. Il rigetto dell’appello è stato, perciò, inevitabile.

Abuso del ricorso alla giustizia e condanna d’ufficio al pagamento di una somma

In un processo, la totale infondatezza e gli errori macroscopici nell’interpretazione delle norme possono costare molto caro.

Chi è titolare di un diritto ed è vittima di un comportamento illecito ha la facoltà di rivolgersi alla giustizia per risolvere il problema. È così, perciò, che si cita in giudizio il danneggiante per ottenere un risarcimento impossibile da ricevere in via amichevole e concordata. Oppure è per questo motivo che s’impugna un’assemblea condominiale, espressasi in violazione della legge e dei propri legittimi interessi.

Ebbene, al di là degli esempi indicati, non mancano i casi in cui il ricorso all’ufficio giudiziario di turno è del tutto immotivato ed infondato. Un cittadino potrebbe, infatti, decidere di fare causa a qualcuno o di resistere ad un provvedimento emesso a proprio carico soltanto per perdere tempo, per ostacolare l’iniziativa di controparte o, semplicemente, per coltivare un contenzioso a tutti i costi.

A quanto pare, è proprio ciò che è accaduto nella lite risoltasi con la sentenza n. 12654 emessa dal Tribunale di Roma il 26 agosto 2022. In tale occasione l’ufficio laziale ha individuato un’ipotesi di abuso del ricorso alla giustizia, precisando presupposti ed effetti di questa fattispecie.

Non mi resta che illustrare il caso concreto.

Abuso del ricorso alla giustizia e condanna d’ufficio al pagamento di una somma. Il caso concreto.

In un fabbricato romano, con un’assemblea condominiale, tenutasi nel febbraio del 2020, il consesso aveva deciso di perseverare in un’azione legale verso un condòmino. Essa era stata intrapresa allo scopo di rivendicare e recuperare alcune parti comuni, indebitamente, occupate dal proprietario de quo. Quest’ultimo, evidentemente, contrariato dalla causa in corso, decideva d’impugnare il deliberato per vari motivi.

Il condominio, costituitosi regolarmente, evidenziava che nelle more del procedimento e, cioè, nel dicembre del 2020, l’assemblea si era, nuovamente, espressa sugli stessi argomenti di quella impugnata e con identica votazione. Con ciò aveva determinato una vera e propria sostituzione dell’oggetto del ricorso. Chiedeva, quindi, che fosse dichiarata la conseguente cessata materia del contendere, ex art. 2377 cod. civ.

Il Tribunale di Roma, valutati gli atti, ha accolto l’eccezione del convenuto, procedendo, quindi alla regolazione delle spese processuali, secondo il principio della soccombenza virtuale. Era, infatti, compito del giudice valutare le probabilità di accoglimento dell’impugnazione per stabilire a chi dovessero essere attribuite queste spese.

A tale riguardo, l’ufficio capitolino ha individuato una tipica ipotesi di abuso del ricorso alla giustizia. L’azione, infatti, era del tutto infondata, pretestuosa e viziata da errori macroscopici. Per questa ragione ha condannato l’attore al pagamento di una somma, equitativamente, determinata in € 1.500,00 a favore del convenuto, ex art. 96 co. 3 cod. proc. civ.

Responsabilità aggravata del soccombente: cosa dice la legge?

Il codice di procedura civile, con l’art. 96 cod. proc. civ., regola i casi in cui chi è soccombente in un processo è condannato non solo al pagamento delle spese di giudizio, ma anche al versamento di una somma a favore della controparte.

Si tratta, sostanzialmente, delle ipotesi in cui si prende parte ad un processo con mala fede e colpa grave, magari pienamente consapevoli dell’infondatezza della propria posizione e al solo scopo, ad esempio, di rimandare nel tempo gli effetti di un provvedimento che sarebbe pregiudizievole per i propri interessi.

Per la legge italiana ciò non è ammissibile, poiché si offende, in primis, la funzione giurisdizionale <<Un simile comportamento è abusivo e merita di essere adeguatamente sanzionato con il pagamento di una somma equitativamente individuata per l’offesa arrecata anche alla giurisdizione(così Corte Cost., 23.06.2016, n. 152)>>.

La norma de quo, inoltre, ha anche lo scopo di scoraggiare comportamenti che creano intralcio a un sistema giudiziario già di per sé congestionato <<Il danno in questione è chiaramente finalizzato a scoraggiare il fenomeno diffuso dell’abuso del diritto e del ricorso alla giustizia per questioni meramente strumentali e dilatorie in dispregio della funzionalità del sistema giustizia che, come noto, soffre di un inflazionato contenzioso anche ingiustificato (cfr. Cass. n. 17902/2010)>>.

Condanna d’ufficio al pagamento di una somma: è necessaria la prova di un danno?

Come si può notare leggendo il terzo e ultimo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., è previsto che il soccombente sia condannato al pagamento di una somma a favore della controparte, in aggiunta alle spese processuali, su iniziativa del giudice e a prescindere da una richiesta del soggetto interessato <<In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata>>.

Per il Tribunale di Roma in commento, si tratta di un’ipotesi particolare poiché la negligenza con la quale il soccombente ha instaurato un giudizio o ha resistito in esso, può condurre alla condanna de quo, indipendentemente dalla prova di un danno <<diversamente da quanto si verifica per l’ipotesi di lite temeraria, non è indispensabile, ai fini dell’applicazione dell’art. 96, comma 3, la necessità ovvero la prova di un danno patito dalla controparte vittoriosa in causa, potendo provvedere il Giudice, anche d’ufficio, e anche senza specifica richiesta della parte risultata vittoriosa, alla condanna della parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata>>.

Proprio ciò che è avvenuto nella lite in commento, dove il magistrato ha, facilmente, concluso per la totale infondatezza dell’impugnazione proposta dal condòmino al verbale di assemblea, in ragione, altresì degli <<errori macroscopici nell’interpretazione di norme sostanziali e/o processuali ed in spregio al consolidato orientamento giurisprudenziale su alcune questioni pacificamente chiarite dalla stessa Corte di legittimità>>.

Ecco, perciò, spiegata la decisione di condannare il soccombente al pagamento di una somma a favore della controparte, oltre al versamento delle spese processuali.

Trasportato danneggiato senza cintura: chi paga?

Chi paga il risarcimento del trasportato danneggiato e quali sono le responsabilità se questi non indossava la cintura di sicurezza.

Nella casistica degli incidenti stradali, si annovera anche il caso del trasportato danneggiato. Si tratta, ad esempio, dell’amico seduto in macchina accanto a te e che, a seguito, di un tamponamento ha riportato lesioni al collo e alla bocca. Oppure sto parlando dell’amica che ti ha accompagnato a fare shopping e che si è fatta male nell’incidente verificatosi durante il tragitto.

In circostanze come questa, si pone la questione del risarcimento dei danni subiti dai tuoi accompagnatori e, a questo riguardo, vorrei chiarire un aspetto molto importante. Nel caso del trasportato danneggiato senza cintura: chi paga?

La domanda non è proposta casualmente, visto che sono frequenti le occasioni in cui il danno si verifica anche perché il trasportato non era correttamente seduto con la cintura allacciata. Bisogna, infatti, capire in che misura questa circostanza può condizionare il risarcimento e se, addirittura, può essere determinante, persino per escludere ogni diritto all’indennizzo. È necessario, altresì, chiarire l’eventuale responsabilità del conducente per averti condotto con sé, senza averti imposto la dovuta protezione.

Pertanto, potresti chiedere? Chi risarcisce il terzo trasportato? Il trasportato senza cintura di sicurezza ha diritto al risarcimento? Quali sono le responsabilità del conducente? Nel prosieguo della lettura risolverai i tuoi dubbi sull’argomento.

Terzo trasportato: a chi chiedere il risarcimento?

Per sapere chi paga il trasportato danneggiato che viaggiava senza cintura, bisogna, innanzitutto, consultare cosa dice la legge in materia. Quindi, devi sapere che il Codice delle assicurazioni dedica un articolo specifico all’argomento.

In particolare, è scritto che <<il danno subito dal terzo trasportato è risarcito dall’impresa di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo al momento del sinistro, a prescindere dall’accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro. Per ottenere il risarcimento il terzo trasportato promuove nei confronti dell’impresa di assicurazione del veicolo sul quale era a bordo al momento del sinistro la procedura di risarcimento. L’impresa di assicurazione che ha effettuato il pagamento ha diritto di rivalsa nei confronti dell’impresa di assicurazione del responsabile civile>> [1].

L’insieme delle regole appena descritte, tradotte in termini più semplici, comportano che:

  • l’amico, seduto accanto a te e che durante il trasporto ha subito lesioni a seguito dell’incidente accaduto, deve rivolgere la propria richiesta di risarcimento alla compagnia assicuratrice del veicolo su cui si trovava;
  • l’amica, che ti accompagnava a fare shopping e che si è fatta male nel sinistro verificatosi, se non ottiene alcun indennizzo in via amichevole dalla assicurazione della tua auto, ha diritto di fare causa alla medesima;
  • non è importante accertare la responsabilità dell’incidente. In tutti i casi, l’azione legale va rivolta verso la compagnia che assicurava la vettura sulla quale si trovava il trasportato;
  • l’assicurazione ha diritto di farsi rimborsare da quella del veicolo di proprietà del responsabile dell’incidente.

Il trasportato senza cintura: ha diritto al risarcimento?

I danni, che un trasportato può riportare per un tamponamento subito dalla vettura su cui si trovava oppure per un altro tipo d’incidente, possono essere, quanto meno, limitati indossando la cintura di sicurezza. Si tratta di una conclusione che, in base alla comune esperienza, è innegabile.

Appare, quindi, evidente che il trasportato, che non si protegge con la cintura, sia imprudente. Per questa ragione, nell’ipotesi di un sinistro stradale, secondo la pacifica opinione giurisprudenziale, ha diritto ad un risarcimento ridotto [2].

Infatti, egli ha contribuito al verificarsi di una precisa circostanza: la vettura è stata messa in circolazione in condizioni di insicurezza. Egli ha, altresì, accettato l’eventualità che, in caso di incidente, potesse verificarsi l’evento lesivo, altrimenti, evitabile. In termini tecnici, si dice che il trasportato ha cooperato, colposamente, nel fatto illecito. Per questa ragione il suo risarcimento non può essere escluso, ma va, opportunamente, ridotto.

Trasportato danneggiato senza cintura: responsabilità conducente

Si sta parlando di un incidente dove il trasportato si è fatto male. In particolare, è emerso che questi non indossava la cintura di sicurezza e, per questa, ragione lo si è reputato imprudente e cooperante nella produzione dell’evento lesivo. Per questa ragione, si afferma che ha diritto al risarcimento in misura ridotta.

Resta, pertanto, da capire quale ruolo e responsabilità possa avere il conducente dell’auto a bordo della quale si trovava il danneggiato.

Secondo alcuni, come titolare della vettura, aveva l’obbligo di imporre al trasportato di stare a bordo in condizioni di sicurezza. In altre parole, avrebbe dovuto costringere l’amico o l’amica di turno a indossare la cintura. Poiché non l’ha fatto, deve ritenersi esclusivo responsabile dell’accaduto.

Viceversa, la ricostruzione operata dalla Cassazione, anche nella sentenza appena citata, è del tutto differente. Gli Ermellini precisano che il conducente è colpevole per aver consentito di viaggiare nella sua auto in modo imprudente. Nel contempo aggiungono che è, evidente, che la condotta poco giudiziosa sia avvenuta col consenso del trasportato e in collaborazione con questi. Per i predetti motivi, il conducente non può essere considerato l’unico responsabile dei danni subiti dal trasportato senza cintura di sicurezza.

NOTE

[1] Art. 141 D.lvo 209/2005

[2] Cass. civ. ord. n. 11095 del 10.06.2020

Marciapiede rotto risarcimento

Il risarcimento per danni da caduta a causa di una buca stradale o di un marciapiede rotto. Presupposti e cause di esclusione

Camminare nelle nostre città si può rivelare molto pericoloso. Infatti, alla luce dello stato avanzato di degrado di strade e marciapiedi, sono molte le occasioni in cui un pedone potrebbe farsi male. Sono, pertanto frequenti le cadute ed altrettanto le circostanze in cui una persona si fa male. In questi casi, il cittadino ha diritto all’indennizzo? Se unitamente alla slogatura di una caviglia, nella caduta si rompono anche gli occhiali, si può avere il rimborso di tutti i danni? Se inciampi in un marciapiede rotto hai diritto al risarcimento?

La domanda potrebbe interessare molti lettori. Sono tanti gli episodi in cui la cattiva manutenzione delle strade pubbliche causa notevoli problemi ai pedoni. Accade, ripetutamente, che il cittadino cada, rovinosamente, per terra, con tutte le conseguenze del caso; una situazione inaccettabile e che costringe il malcapitato a rivolgersi al proprio Comune per essere indennizzato. Resta da capire se ciò sia possibile e a quali condizioni. Pertanto, le domande da porsi sono le seguenti: in caso di caduta determinata da un marciapiede rotto, ho sempre diritto al risarcimento? Quali sono i presupposti per avere un indennizzo a seguito di una caduta in una buca stradale? Se inciampo in un dislivello del marciapiede e mi faccio male, posso avere il rimborso delle spese mediche?

Il Comune è responsabile per buche e marciapiedi rotti?

Il Comune, cioè l’ente territoriale proprietario delle strade e dei marciapiedi, ha il dovere di provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria di questi beni pubblici. Qualora un cittadino dovesse farsi male a causa di una buca stradale o di un dislivello dovrebbe, quindi, scattare inevitabile la responsabilità; si tratta, in particolare, di quella per i danni derivanti dalle cose in custodia [1].

Purtroppo, però, come avrai notato, ho usato il condizionale. Non è stata una coincidenza o un errore, poiché nelle azioni legali avanzate in questi casi, si frappone un ostacolo non di poco conto. La giurisprudenza della Cassazione, infatti, con atteggiamento decisamente favorevole agli enti territoriali ha, più volte, precisato che la cattiva manutenzione di un bene pubblico non è di per sé sufficiente ad avere il risarcimento dei danni derivanti da una caduta.

Buca visibile ed evitabile: il risarcimento

Con sentenze ripetute ed atteggiamento consolidato, la giurisprudenza ha affermato che un’insidia stradale visibile ed evitabile, impedisce di riconoscere qualsivoglia risarcimento. Non è importante, quindi, che il marciapiede era totalmente disastrato. Non è determinante se la strada era piena di buche. Se il pedone aveva la possibilità, con un po’ di attenzione, di aggirare il dislivello del marciapiede o di scansare la voragine presente, non può invocare alcuna responsabilità del Comune proprietario del bene. In questi casi, quindi, viene punita la presunta distrazione del cittadino, piuttosto che la pessima per non dire totalmente mancante manutenzione del luogo pubblico. Non ci credi? Ecco alcuni esempi

Buca in zona conosciuta: nessun risarcimento

Se cadi perché inciampi in una buca o in un marciapiede sconnesso, presenti in una strada del tuo circondario, non può invocare alcun risarcimento. Si tratta, infatti di un’insidia stradale che potevi serenamente evitare. Essendo, infatti, della zona difficilmente potrai negare che non ne eri a conoscenza. Per questa ragione si è trattato di un evento che, con maggiore attenzione, potevi impedire. Sei stato tu, quindi, con il tuo atteggiamento imprudente, a creare le condizioni della tua caduta rovinosa. È vero che il Comune dovrebbe provvedere alla manutenzione della strada. È anche noto, però, che con un minimo accorgimento, visto che già conoscevi la zona, avresti dovuto superare l’ostacolo.

Purtroppo, non si tratta di una considerazione personale. Sono, piuttosto, le conclusioni a cui si arriva a seguito di una delle tante sentenze espresse sull’argomento dalla Cassazione [2].

Dislivello marciapiede visibile: nessun risarcimento

Con una decisione di questi ultimi mesi [3], gli Ermellini hanno confermato che la possibilità per il pedone di prevedere l’evento lesivo sia determinante per escludere ogni possibilità di risarcimento ed ogni responsabilità per l’ente territoriale proprietario della strada o del marciapiede. Secondo i magistrati, in queste circostanze, il cittadino deve assumere determinate cautele e se, ad esempio, c’era spazio sufficiente per aggirare l’insidia, si deve concludere che non le abbia adottate.

Nel caso specifico, il dislivello del marciapiede in cui era inciampato il malcapitato pedone, risultava visibile a causa della <<diversa connotazione cromatica rispetto alla restante parte del marciapiede>>. Forse, se il cittadino fosse stato daltonico o ipovedente, avrebbe avuto maggiori possibilità di vincere la causa (sempreché non gli fosse stata imputata la responsabilità per non essere rimasto a casa).

A parte le battute, in quali casi, quindi per una caduta determinata da un marciapiede sconnesso o una buca stradale, il pedone ha diritto al risarcimento.

Buche e marciapiede rotto: quando hai diritto al risarcimento?

Hai visto che, per la giurisprudenza, la visibilità di una buca comporta che la stessa sia evitabile. Quando vedi il marciapiede rotto, infatti, puoi prevedere di inciamparci e quindi, lo aggiri. Se non lo fai sei stato imprudente e non puoi avere alcun risarcimento.

Alla luce di queste sono le conclusioni, l’unica possibilità di avere un indennizzo è data dall’imprevedibilità dell’evento. Ad esempio, quando la buca si manifesta sotto la pressione del piede poggiato per terra. Oppure, se il cordolo del marciapiede si stacca sotto il peso della persona che sta per attraversare la strada. In questi, come in altri casi analoghi, l’evento non era prevedibile, è stato improvviso e non era evitabile. L’insidia si è, infatti, manifestata contestualmente alla caduta e, quindi, il pedone non poteva certo evitarla.

Ricordati, infine, che per provare queste circostanze, sarà decisiva la testimonianza degli eventuali accompagnatori del danneggiato. Questi, infatti, dovranno ricordare l’accaduto e confermare che l’insidia stradale si è concretizzata contestualmente al passaggio nella pubblica via e senza che potesse essere evitata.

NOTE

[1] Art. 2051 cod. civ.

[2] Cass. civ. ord. n. 22417/2017

[3] Cass. civ. ord. n. 6403/2020

Animale affezione risarcimento

Il risarcimento del legame tra l’animale di affezione e il suo padrone in caso di perdita causata da una terzo. Motivi e modalità di calcolo del danno

Devi sapere che, nel nostro ordinamento giuridico, la possibilità di ottenere un risarcimento è, di regola, legata alla perdita di carattere patrimoniale. Ad esempio, quando viene danneggiata la tua cara e vecchia auto, magari in modo irreparabile, hai diritto al suo controvalore, aumentato dei costi necessari per l’intestazione di un altro veicolo; non certo puoi pretendere il danno morale. In altri termini, il fatto che fossi affezionato a questo oggetto non è un presupposto invocabile per ottenere un ristoro economico.

Tutto ciò vale anche a proposito del tuo amato cagnolino? Se a causa di una terza persona muore il tuo adorato gatto, questa è tenuta a risarcirti il danno derivante dalla perdita di questo rapporto affettivo? Se qualcuno smarrisce il tuo animale di affezione hai diritto al risarcimento?

La risposta alle tue domande arriva da un caso giudiziario che ha affrontato la questione. In particolare, si è trattata di una sentenza del Tribunale di Brescia dello scorso anno. Essa ha dovuto giudicare una domanda di risarcimento avanzata, anche, allo scopo di ottenere un indennizzo legato alla perdita affettiva patita dal padrone dell’animale. Non mi resta, pertanto, che approfondire quanto è accaduto. Potrebbe tornarti molto utile, se ti riconosci nelle circostanze che hanno caratterizzato l’evento in contestazione.

Animale affezione risarcimento: il caso

La vicenda sottoposta all’attenzione del Tribunale di Brescia, culminata con la sentenza n. 2841/2019, è stata caratterizzata dallo smarrimento di un cane. L’animale era stato affidato a un allevamento, affinché provvedesse al suo accoppiamento. Purtroppo era accaduto che il cane, secondo la versione dell’allevatore, fosse imprevedibilmente scappato, senza rispondere ai richiami e senza che lasciasse traccia di sé.

Il padrone, informato del fatto, aveva tentato di ritrovare il suo fedele quanto amato compagno. Purtroppo la ricerca era risultata vana, nonostante fosse andata avanti per molti giorni e con ogni mezzo a disposizione.

Per questa ragione, il titolare dell’animale aveva richiesto un risarcimento alla controparte a tre titoli diversi:

  • in ragione del valore economico del cane, considerando, anche, l’impossibilità di farlo accoppiare e di ricavare dalla vendita dei cuccioli una futura entrata economica;
  • alla luce delle spese affrontate per l’inutile tentativo di ritrovarlo;
  • in virtù del legame affettivo tra l’uomo e l’animale.

Ebbene, a seguito dell’istruttoria svoltasi in questo processo, il magistrato lombardo ha riconosciuto soltanto il ristoro delle spese per il vano recupero del cane e il risarcimento conseguenziale alla perdita affettiva. Non mi resta che spiegarti i presupposti e i motivi di questa decisione.

Legame cane padrone: è un bene della persona

La personalità di un essere umano e tutto ciò che contribuisce al suo legittimo e inviolabile sviluppo è garantita dalla nostra costituzione [1]. A questo proposito, anche il legame che si crea tra un uomo e il suo animale di affezione va tutelato ai sensi della predetta disposizione costituzionale. Secondo, infatti, il citato Tribunale, si tratta, al pari degli altri, di un bene della persona. Per questa ragione, nel momento in cui viene provato il rapporto affettivo tra il padrone e il proprio cane, allorquando lo stesso sia andato perso a causa di qualcuno, questi sarà tenuto al risarcimento. Per rappresentare la prova in questione possono essere sufficienti la relazione di uno psicologo così come la testimonianza di un medico che attesta lo stato di disagio a carico del padrone dopo l’evento.

La perdita di un animale di affezione non viene, quindi, considerata futile per le ragioni appena descritte. Essa va risarcita indipendentemente dal fatto che il responsabile non abbia commesso un reato ma soltanto un illecito civile; il legame in questione non può essere, minimamente, paragonato al rapporto che si può avere con un oggetto, per quanto caro alla nostra sensibilità [2]. È questa, dunque, la ragione fondamentale per cui la perdita di un animale di affezione contempla un risarcimento.

Animale affezione: come calcolare il risarcimento

Il valore del legame affettivo tra il padrone e il proprio animale di affezione non è quantificabile in base ad una tabella prevista dalla legge. Ciò, ad esempio, è possibile per le lesioni patite in un incidente d’auto, ma per il caso in esame non c’è alcuna alternativa alla quantificazione secondo equità.

In pratica, il giudice, chiamato a calcolare il risarcimento del danno, deve procedere ad un prudente accertamento della situazione, fondato sulle regole dell’esperienza comune. Ad esempio, per il Tribunale di Brescia è stato sufficiente considerare l’età del cane e la durata del rapporto con il proprio padrone. Dopodiché, ha calcolato in 4.000 euro il danno subito.

Per quanto riguarda, invece, il valore economico dell’animale di affezione, soprattutto quello legato agli eventuali proventi ricavabili dalla futura vendita dei piccoli, è consigliabile affrontare l’azione risarcitoria con degli elementi più oggettivi. Ad esempio, una certificazione medica che attesti lo stato di buona salute del cane poco prima della perdita; in aggiunta la documentazione che testimonia la vendita dei cuccioli avvenuta in passato e il ricavato di tale attività. In caso contrario, si rischia il rigetto di questa voce di danno, così come è avvenuto nel giudizio espresso dal Tribunale di Brescia.

NOTE

[1] Art. 2 Cost.

[2] Trib. di Vicenza sent. n. 24/2017

Eredità coniugi senza figli

Come si divide l’eredità dei coniugi senza figli. La possibilità, per i discendenti dei fratelli, di subentrare in rappresentazione

Un matrimonio non è sempre caratterizzato dalla presenza dei figli. Succede, infatti, che la coppia si sia formata e poi consolidata senza sentire il bisogno di procreare; così come potrebbe accadere che, per varie motivazioni, non abbia potuto avere un discendente.

In questo come in altri casi, alla morte di uno dei due o di entrambi, deve, necessariamente, aprirsi la successione ereditaria e, l’ipotetica assenza di una figlia o di un nipote generato dalla medesima, non può consentire che il patrimonio ereditario in questione rimanga senza un erede.

Si tratta, pertanto, di capire cosa accade in questa particolare circostanza. Per questa ragione potresti chiedere: a chi va l’eredità dei coniugi senza figli?

In materia ereditaria, spesso si presentano delle situazioni che il cittadino comune ha difficoltà a codificare. Ad esempio, è di conoscenza diffusa il fatto che i figli siano gli eredi principali ed esclusivi di una persona defunta. Le regole, invece, cominciano a diventare complicate quando mancano dei discendenti diretti. In tal caso, non si comprende in che misura entrano in gioco gli altri parenti, quale ad esempio i fratelli, i nipoti e, persino, i cugini.

Pertanto, l’obiettivo di questo articolo è quello di fornire i chiarimenti necessari per avere le idee più chiare a proposito dell’eredità dei coniugi senza figli.

Eredità coniugi senza figli con testamento

Chiunque, anche chi è regolarmente sposato, può decidere di fare testamento e, con questo, disporre del proprio patrimonio per quando non ci sarà più. Si tratta delle cosiddette ultime volontà con le quali, però, non è possibile decidere in totale libertà.

La legge, infatti, prevede che ci siano alcuni soggetti, definiti legittimari, ai quali anche i coniugi senza figli devono dare conto. In altri termini, nonostante il testamento, bisogna destinare a queste persone una quota minima del patrimonio ereditario. Nello specifico sto parlando dell’altro coniuge, se superstite, o degli ascendenti del defunto (genitori o nonni, sempre se sono in vita).

Ad esempio, se il marito della coppia muore lasciando i propri genitori, pur facendo testamento, deve prevedere a favore dei medesimi, almeno 1/3 dell’eredità.

Questa quota diventa ancor più grande se si fa riferimento alla moglie ancora in vita: questa, infatti, dovrà avere almeno la metà del patrimonio ereditario.

In ultimo, potrebbe accadere che il coniuge muoia con ancora in vita l’altro e i propri genitori. In questo particolare caso, pur utilizzando un testamento, il testatore dovrà considerare 1/4 del patrimonio per la propria mamma e la metà dell’eredità per il proprio consorte.

Ricapitolando, nonostante il testamento, non si può fare a meno di destinare una certa quota, secondo le proporzioni appena indicate, ad alcuni soggetti. Tolta questa, si avrà la cosiddetta quota disponibile, che il coniuge senza figli potrà devolvere:

  • a favore degli stessi soggetti a cui è riservata una quota minima;
  • a chiunque altro, compreso un caro amico o, persino, l’amante.

Eredità coniugi senza figli senza testamento

Non sempre si decide di fare testamento. Spesso si preferisce evitare, anche solo per scaramanzia. Resta il fatto che, se una persona muore senza aver espresso le proprie ultime volontà, sarà la legge a stabilire i potenziali eredi e le quote ad essi devolvibili.

In questo caso, si apre la cosiddetta successione legittima, per la quale, l’eredità dei coniugi senza figli è destinata secondo queste regole:

  • in mancanza di parenti del defunto, quali i suoi genitori oppure fratelli o sorelle oppure i figli di questi, il patrimonio ereditario è lasciato per intero al coniuge superstite. Non conta, pertanto, la presenza di parenti più lontani quali, ad esempio, i cugini:
  • se in aggiunta al coniuge superstite il compianto consorte lascia fratelli o sorelle, l’eredità andrà per 2/3 al primo mentre per il restante 1/3 ai secondi; la quota di questi sarà divisa in parti uguali tra i citati consanguinei;
  • se il defunto era vedovo e manca, quindi, un coniuge superstite, ma sono ancora in vita dei fratelli e sorelle, questi erediteranno, sempre in parti uguali, l’intero patrimonio ereditario. Anche in questo caso, eventuali parenti più lontani non avranno diritto a nulla.

Eredità coniugi senza figli con nipoti

Avrai ormai capito che in questa pubblicazione sto ipotizzando che muoia una persona, regolarmente sposata, che non ha mai avuto figli e, conseguenzialmente, dei nipoti generati dai medesimi. Ciò non toglie che possa lasciare, come propri potenziali eredi, i discendenti di un fratello premorto. In questo caso, questo genere di nipoti, vanta qualche diritto ereditario?

La risposta positiva è data, ancora una volta, dalla legge. Secondo questa, infatti, i figli di una sorella o di un fratello che abbiano deciso di non accettare l’eredita ad essi devoluta o, semplicemente, che non abbiano potuto riceverla poiché sono già morti, hanno il diritto di subentrare in luogo del proprio genitore.

Sto parlando di un istituto giuridico ben preciso che si chiama rappresentazione. In base a questo, ad esempio, in mancanza di un testamento, se il coniuge senza figli lascia la propria consorte e i figli di due sorelle, entrambe, premorte, la quota che questi si dovrebbero dividere potrà essere accettate dai rispettivi discendenti. Faccio un esempio, sperando che sia più chiaro:

Tizio, senza aver fatto testamento, muore lasciando in vita la propria moglie Caia cui andrebbero i 2/3 del patrimonio. Erano, purtroppo, già deceduti anche i suoi fratelli: Mevio, Sempronio e Tiziano, che avrebbero dovuto ereditare il restante 1/3 (cioè 1/9 a testa). Questi hanno rispettivamente due figli, il primo, tre figli, il secondo, due figli, il terzo. Ebbene questi nipoti potranno dividersi in parti uguali la quota del proprio genitore, pari ad 1/9.

In questo modo, spero di averti chiarito come funziona la rappresentazione nel caso esaminato.

Comunicazione dati conducente per multa

Come e perché effettuare la comunicazione dati del conducente per una multa. In caso contrario, scatta un’ulteriore sanzione amministrativa

Non sempre la nostra condotta di guida è impeccabile. Capita, quindi, di distrarci e, per questo motivo, di commettere un’infrazione. Alle volte, invece, è la fretta a giustificare un limite di velocità superato oppure un attraversamento all’incrocio, semideserto, senza rispettare il semaforo. In queste circostanze, se siamo fortunati non paghiamo alcuna conseguenza; in caso contrario, ci becchiamo la classica multa.

Per la verità, in queste situazioni, il rischio sanzione è duplice. Infatti, unitamente al verbale, riceviamo l’invito, non certo amichevole, a comunicare gli estremi di chi guidava al momento della trasgressione. Si tratta di un obbligo e pertanto potresti chiederti: in caso di omessa comunicazione dei dati del conducente per multa cosa accade?

La domanda è più che pertinente, visto che sono molti i cittadini che tentano di eludere questo ordine. Il motivo è dettato dalla sanzione accessoria legata alla sanzione amministrativa principale: la perdita dei punti sulla patente. Questa è una conseguenza fastidiosa, poiché un titolo di guida immacolato può essere utile anche per risparmiare qualcosina sull’assicurazione. Inoltre, per chi è recidivo nelle multe, i punti sulla patente potrebbe essere ridotti al lumicino. Sono queste, pertanto, le ragioni per cui ti chiedi: per una multa, perché devo comunicare i dati del conducente? In caso contrario, cosa succede? Se faccio ricorso contro la multa principale devo, ugualmente, comunicare i dati del conducente?

Multa: quando comunicare i dati del conducente?

La comunicazione dei dati del conducente per una multa è una condotta non sempre dovuta. Ad esempio, non devi inviare alcuna informazione, allorquando il verbale viene elevato contestualmente all’infrazione. In questo caso, infatti, sei stato fermato dalla pattuglia e, quale conducente, sei stato chiaramente identificato.

Ci sono poi le multe per violazioni meno gravi, per ipotesi il divieto di sosta, dove il codice della strada non prevede alcuna sanzione accessoria per il guidatore distratto. Anche in questi casi, non devi comunicare alcunché.

Ad ogni modo, per evitare dubbi, quando ricevi una multa a casa, ricordati sempre di leggere bene tutto ciò che è contenuto nel plico; al suo interno, sarà chiaramente specificato se la tua infrazione rientra in quelle per le quale devi inviare l’informativa in esame.

Comunicazione dati conducente: termine

Secondo il codice della strada [1], in caso di multa, la comunicazione dei dati del conducente deve avvenire nel termine perentorio di 60 giorni. Si tratta di una scadenza che parte dal momento in cui hai preso conoscenza del verbale. Questo avviene, ad esempio, quando il plico è preso in consegna da tua moglie o da tuo figlio: oppure nel momento in cui vai a ritirare la raccomandata o dopo dieci giorni dalla sua giacenza in posta.

Multa: come inviare la comunicazione dati conducente

All’interno della multa che ricevi, trovi tutte le informazioni necessarie per sapere come inviare la comunicazione dei dati del conducente. Ad ogni modo, sappi che potrai farlo:

  • compilando e sottoscrivendo il modulo che troverai al suo interno;
  • inviando il modulo via fax, via mail, tramite raccomandata oppure consegnando la tua dichiarazione presso l’ufficio indicato nel verbale;
  • allegando, all’invio o al deposito, la copia della patente del conducente al momento dell’infrazione.

Mancata comunicazione dati conducente: importo sanzione

A seguito di una multa ricevuta, per la quale è previsto l’obbligo di comunicare i dati del conducente, la sua omissione comporta una sanzione alquanto elevata. In particolare si tratta di 292 euro che dovrai pagare per questa colpevole distrazione.

Comunicazione dati conducente: se pago la multa?

Molti pensano che pagando la multa non sia dovuta più nessuna attività oppure, semplicemente, si distraggono e, dopo aver versato l’odioso obolo, si dimenticano di fare altro. Devi sapere, però, che se è prevista la comunicazione dati del conducente, essa è sempre necessaria e obbligatoria, anche nel caso in cui tu abbia saldato la prima sanzione. Pertanto, non puoi invocare il puntuale pagamento della multa, per evitare di informare le autorità su chi stava guidando il veicolo al momento dell’infrazione.

Comunicazione dati conducente: se faccio ricorso?

Ricapitolando, in caso di multa, potresti essere costretto a comunicare i dati del conducente. Ciò è obbligatorio se si tratta di una violazione per la quale è prevista la decurtazione dei punti dalla patente e se l’infrazione non è stata contestata al momento.

Hai inoltro appreso che l’informativa deve avvenire entro sessanta giorni dal ricevimento dell’atto, inviando il modulo compilato allegato al verbale, unitamente alla copia della patente del guidatore. Hai infine capito che il pagamento della sanzione principale non ti esonera dalla predetta informativa.

Pertanto, l’ultimo dubbio riguardo il caso in cui tu abbia fatto ricorso contro la prima multa. Ad esempio, sei in grado di dimostrare che il verbale, per eccesso di velocità, era illegittimo. In questa ipotesi, saresti comunque obbligato a comunicare i dati del conducente. Cosa succede se non lo fai e la multa impugnata viene annullata?

La risposta è fornita da una recente sentenza della Cassazione [2], secondo la quale sarebbe un imperdonabile errore non inviare la comunicazione. Gli Ermellini precisano, infatti, che l’obbligo di comunicazione in esame, quando è previsto, va rispettato in tutti i casi. Si tratta, infatti, di una condotta del tutto autonoma rispetto a quella che ha determinato l’infrazione al codice della strada a cui è legata. Per questa ragione, in caso di multa, se è stabilito l’invio della comunicazione dati del conducente e non lo fai, sarai sempre tenuto al pagamento della sanzione prevista per questa omissione. In altri termini sei e resterai obbligato, anche se la multa principale sarà stata annullata.

NOTE

[1] Art. 126 cod. della strada

[2] Cass. civ. ord. n. 8479/2020

Tagliare i rami dell’albero o della siepe del vicino

La distanza delle piante dal confine e se è possibile far tagliare i rami dell’albero o della siepe del vicino. Invasione radici: diritti e responsabilità

Si sa che le piante sono degli organismi viventi che si sviluppano anche molto velocemente. La loro crescita avviene in altezza e in larghezza, allungandosi ed allargandosi anche di molti metri. Se ciò avviene in natura, all’interno di un bosco, ovviamente non c’è alcun problema giuridico da risolvere. Se invece, si tratta di una pianta posizionata all’interno di una proprietà privata, ma in prossimità del confine altrui, allora la questione è diversa. Basti pensare ai rami e alle radici che potrebbero danneggiare il fondo confinante oppure, semplicemente, al fogliame che sporcherebbe il terreno su cui è caduto. Sono queste, tra le tante, le ragioni per cui potresti chiederti: posso tagliare i rami dell’albero o della siepe del vicino?

Se stai leggendo questo mio contributo, probabilmente, sei afflitto dalle fronde di un albero di proprietà altrui. Nessuno ha mai provveduto ad una regolare potatura e, per questo motivo, ti ritrovi i rami nel tuo giardino. In alternativa, potresti essere stato invaso da una siepe troppo ingombrante. Questa, originariamente bassa, sarebbe diventata un vero e proprio muro e, per questa ragione, vorresti che il tuo vicino la tagliasse o, addirittura, la eliminasse.

Se la tua situazione rientra in quelle descritte oppure è simile, è giusto che tu sappia a quale distanza dal confine debba essere posizionata una pianta. Inoltre, è importante capire quali diritti puoi esercitare se un albero o una siepe ha invaso il tuo giardino.

Albero o siepe: la distanza al confine

Il codice civile [1] stabilisce a quale distanza un albero o una siepe debba essere piantato rispetto al confine:

  • gli alberi di alto fusto, si pensi ad una quercia o a un leccio, devono essere piantati a non meno di tre metri dal fondo altrui;
  • gli alberi non di alto fusto possono stare a un metro e mezzo;
  • gli arbusti, le siepi, le viti e gli alberi da frutto, di altezza non superiore ai due metri e mezzo, possono essere posizionati anche a mezzo metro dal confine;
  • le siepi/ceppaie, cioè quelle siepi di alberi di alto fusto, tagliati in modo da tale da potersi sviluppare in larghezza e non in altezza, vanno piantate a una distanza minima di un metro;
  • le siepi di robinie, infine, particolarmente voluminose, non possono essere poste a meno di due metri dalla proprietà altrui.

Se ti accorgi che si tratta di piante non a distanza dal tuo confine, sappi che hai il diritto di pretenderne l’estirpazione [2]. L’unica condizione in cui non potresti esercitare questa facoltà, sarebbe la presenza di un muro divisorio di altezza maggiore rispetto alle piante incriminate.

Se, invece, vuoi sapere se puoi tagliare i rami dell’albero o della siepe del vicino, devi continuare la lettura.

Chi deve tagliare i rami nel fondo altrui?

Può accadere che un albero o una siepe piantata, nel fondo confinante, protenda i propri rami all’interno della nostra proprietà. In questo caso, possiamo costringere il vicino a tagliarli. Si tratta di un diritto sancito dal codice civile [3] e confermato dalla giurisprudenza della Cassazione [4]. Inoltre, non ti dimenticare che:

  • il potere di costringere il vicino a tagliare i rami è imprescrittibile. Anche se passano trent’anni senza averglielo mai chiesto, non perderai mai questo diritto;
  • se anche dovesse esserci un muro divisorio, il vicino resta sempre obbligato ad eseguire la potatura in esame;
  • tu e il tuo vicino potete accordarvi, con un contratto di servitù, affinché albero e siepi possano invadere il tuo giardino. In mancanza, resta la tua facoltà di farglieli tagliare

Posso tagliare le radici dell’albero o della siepe del vicino?

Hai visto che puoi costringere il vicino a tagliare i rami dell’albero o della siepe che invadono la tua proprietà. In pratica, quindi, non puoi farlo di tua iniziativa, ma puoi pretendere che a potare le sue piante sia il suo legittimo proprietario.

Il discorso cambia a proposito delle radici delle piante. Sappiamo, infatti, che anche queste si sviluppano notevolmente. In alcuni casi, potrebbero persino arrivare nella proprietà altrui. Se ciò dovesse accadere, sappi che hai il potere di reciderle senza attendere alcuna autorizzazione.

Su questo argomento, si è espressa anche una recente giurisprudenza [5]. È stato, infatti, chiarito:

  • che l’invasione del fondo altrui da parte delle radici è sempre indebita, indipendentemente dalla distanza della pianta dal confine;
  • il proprietario del fondo invaso non deve, in alcun modo, realizzare opere che debbano contenere l’ipotetico protendersi delle radici di un albero del vicino;
  • nel caso in cui le radici dovessero danneggiare l’immobile confinante e/o le opere in esso presenti, il proprietario della pianta sarebbe tenuto, altresì, al risarcimento del danno.

Queste conclusioni suggeriscono di avere sempre un atteggiamento accorto e prudente nei confronti delle proprie piante. Anche se si tratta di alberi posti a distanza legittima dal confine, fate sempre attenzione al loro sviluppo. Rami e radici potrebbero, infatti, determinare una responsabilità per danni. Quindi, in alcuni casi, potrebbe essere necessaria una dolorosa quanto inevitabile estirpazione.

NOTE

[1] Art. 892 cod. civ.

[2] Art 894 cod. civ.

[3] Art. 896 cod. civ.

[4] Cass. civ. sent. n. 14632/2012

[5] Corte di App. di Roma sent. n. 1827/2020

Assegno divorzio: revisione e giurisprudenza

Quando viene previsto l’assegno di divorzio e se è possibile chiederne la revisione in caso di mutamento della giurisprudenza

Tra le questioni che caratterizzano lo scioglimento di un matrimonio, non ci sono soltanto quelle di natura personale. Infatti, è necessario considerare altri aspetti non meno importanti.

A questo proposito, sappiamo che la legge ha preteso di regolamentare le vicende della famiglia a seguito della separazione e del divorzio. C’è, pertanto, da decidere, la sorte della casa coniugale e l’affido prevalente dei figli minori; oppure la misura del mantenimento per essi e, eventualmente, anche quello dovuto a favore di uno dei due coniugi.

In quest’ambito, quindi, si colloca l’assegno divorzile, con il quale l’onerato è tenuto a versare al proprio ex un contributo mensile. Esso è stabilito dal Tribunale oppure a seguito di un accordo tra la coppia.

Ebbene, devi sapere che la misura di questo importo può essere oggetto di revisione. Inoltre, secondo alcune recenti sentenze, a determinate condizioni, la tua ex non avrebbe diritto a nessun aiuto economico. Pertanto, ti domandi: per l’assegno di divorzio posso chiedere la sua revisione e posso fondarla sulla nuova giurisprudenza in materia?

Questo dubbio è, spesso, sollevato da tutti coloro che non vorrebbero più versare alcun contributo alla propria moglie, visto che la stessa lavora e non ne ha particolare bisogno.

Si tratta, in particolare, di un assegno divorzile che è stato stabilito alcuni anni fa. A quel tempo, l’interpretazione giurisprudenziale era diversa e non era ancora stata modificata la concezione sulla natura e la funzione di questo onere.

Ora, pertanto, vorresti chiedere la revisione dell’assegno di divorzio; una pretesa più che lecita che, però, bisogna capire se possa essere accolta e a quali condizioni. Non mi resta che procedere, chiarendoti gli aspetti salienti dell’intera questione giuridica.

Cos’è l’assegno divorzile

Secondo la legge [1], in una causa di divorzio, il Tribunale può disporre il versamento periodico di una certa somma a favore del coniuge che non dispone di mezzi adeguati per sostenersi e non ha, oggettivamente, modo di procurarseli. Nella sentenza, il giudice, deve, altresì, stabilire un criterio automatico di rivalutazione dell’importo fissato.

È opportuno, inoltre, chiarire che l’assegno di divorzio può essere determinato su accordo tra le parti; esse possono concordare il suo pagamento in un’unica soluzione.

Ciò che è importante precisare è che la facoltà di riconoscere questo contributo e di fissarne la misura non può essere esercitata senza alcun criterio. Si tratta, infatti, di una valutazione che deve trovare la sua giustificazione alla luce:

  • del contributo dato da entrambi i coniugi alla gestione familiare ed alla formazione del patrimonio comune e personale;
  • del reddito di entrambi;
  • della durata del matrimonio.

Se queste sono le indicazioni legislative, esse come sono state interpretate ed applicate dalla giurisprudenza?

Assegno divorzile: a chi spetta?

Per molti anni, per valutare l’opportunità o meno di stabilire un assegno di divorzio, si osservava il tenore di vita avuto in costanza di matrimonio; si tratta di un aspetto che, attualmente, non è determinante.

Secondo una famosa decisione della Cassazione [2], l’assegno divorzile non può più fungere da compensazione per il reddito diverso tra i due ex: sempre secondo gli Ermellini [3], è necessario, innanzitutto, secondo la regola dettata dalla legge, constatare quali sono i mezzi di sostentamento di un eventuale coniuge più debole (non è, quindi, detto che ci sia) e se, oggettivamente, ha difficoltà nel procurarseli (ad esempio, si tratta di una persona di una certa età, ormai priva di qualsivoglia qualificazione lavorativa). Se il magistrato riconosce la sussistenza dei predetti presupposti, può prevedere il contributo mensile a favore del coniuge beneficiario.

Come calcolare l’assegno divorzile?

Nel calcolare la misura dell’assegno divorzile, il giudice, non può esimersi da alcune considerazioni. Egli deve valutare il contributo che il coniuge più debole ha fornito alla formazione del patrimonio familiare e alla costituzione di quello del coniuge onerato.

Ad esempio, consideriamo una casalinga che ha gestito la casa coniugale e i figli, mentre il marito esercitava la professione e incrementava anche il proprio patrimonio.

Ebbene, non possiamo negare che, a seguito del divorzio, questa signora potrebbe avere delle difficoltà; magari non avrebbe più l’età per lavorare è sarebbe difficile sostenersi autonomamente. In tali condizioni, appare naturale prevedere un assegno di divorzio a suo favore.

Esso dovrà essere calcolato considerando la durata del matrimonio e il conseguenziale apporto dato al patrimonio familiare e personale del marito con la propria dedizione.

Assegno divorzio: mutamento giurisprudenziale e revisione

Innanzitutto, devi sapere che è possibile chiedere la revisione delle condizioni di divorzio, tra cui anche l’ammontare dell’eventuale assegno; è una possibilità riconosciuta anche se l’importo è frutto di un accordo tra le parti.

La legge, però, stabilisce che la modifica non può essere sempre concessa; ad esempio perché sono trascorsi molti anni dal divorzio: è necessario che vi siano dei giustificati motivi a sostegno della domanda di revisione.

A questo punto, a proposito dell’assegno di divorzio, è possibile ottenerne la revisione fondandola sul mutamento della giurisprudenza?

Secondo una recente Cassazione [4], la revisione dell’assegno deve avvenire in base a degli elementi di fatto, sopravvenuti alla sentenza di divorzio, che hanno alterato l’equilibrio economico raggiunto tra gli ex, a seguito della prima decisione.

Ad esempio, un presupposto su cui fondare la richiesta, potrebbe essere il peggioramento delle condizioni economiche del coniuge onerato. Esso potrebbe ostacolare l’agevole pagamento dell’assegno già fissato.

Non rientra, invece, tra i giustificati motivi il mutamento dell’opinione giurisprudenziale. In caso contrario, secondo gli Ermellini, si potrebbero verificare delle decisioni estremamente discrezionali e in contraddizione tra di loro.

Potrebbe accadere qualora dovesse nuovamente cambiare l’interpretazione della norma. Oppure, potrebbe succedere se il Tribunale, investito del ricorso, non volesse, motivatamente, aderire a quanto espresso dalla Cassazione.

Pertanto, la revisione del tuo assegno di divorzio non è mai tanto scontata.

NOTE

[1] Art. 5 Legge 898/1970

[2] Cass. civ. sent. n. 11504/2017

[3] Cass. civ. S.U. sent. n. 18287/2020

[4] Art. 9 Legge 898/1970

[5] Cass. civ. sent. n. 1119/2020

Casa in costruzione garanzia obbligatoria

Quale garanzia è prevista nel caso di acquisto di una casa in costruzione

Nel valutare l’opportunità di acquistare un immobile, la scelta di una famiglia potrebbe indirizzarsi verso una casa in costruzione. Si tratta di un’opzione, peraltro, non infrequente, soprattutto in quelle località di provincia, dove gli appartamenti o le villette in fase di edificazione sono tante.

In questi casi, inoltre, il potenziale acquirente ha la possibilità di valutare il progetto e di preferire quello che più si addice alle proprie esigenze, anche in relazione alla metratura di cui ha bisogno.

Tuttavia, c’è sempre il rovescio della medaglia. Si sa, infatti, che non si comprerà un prodotto finito, ma un bene ancora da divenire. Ciò non toglie, però, che l’acquirente sarà chiamato a versare la caparra al preliminare e gli eventuali acconti successivi, fino ad arrivare al saldo con il rogito definitivo. In tale circostanza, quindi, ci si chiede: quale garanzia ha il compratore? Per una casa in costruzione la garanzia è obbligatoria?

Le domande appena poste sono molto pertinenti, soprattutto se si pena alla malaugurata ipotesi in cui l’impresa di costruzione dovesse essere travolta da rilevanti problemi economici; una circostanza non certo irrilevante, se si pensa alle inevitabili difficoltà che l’acquirente avrebbe, anche, nel recuperare gli importi già versati; per non parlare dell’acquisto svanito.

Ebbene, una soluzione ci sarebbe ed è rappresentata dalla cosiddetta polizza fideiussoria prevista dalla legge [1]. In quest’articolo, quindi, l’obiettivo è di chiarire al lettore in quali casi sarebbe necessaria, come dovrebbe operare e quali sarebbero le conseguenze della sua mancata previsione.

Casa in costruzione: la garanzia fideiussoria

Quando scegli di comprare una casa in costruzione è buona regola, come del resto sempre accade, sottoscrivere un contratto preliminare che impegni le parti e che le conduca verso il rogito notarile. In genere, quando si tratta di un immobile ancora non completo, il costruttore impone il versamento di una caparra, il pagamento di uno o più successivi acconti e il saldo alla consegna, contestuale al contratto dinanzi al notaio.

Il percorso appena descritto è, solitamente, accompagnato da alcuni intoppi. Ad esempio, sui materiali utilizzati, sul montaggio e l’installazione di alcuni componenti (le piastrelle nel bagno), sul posizionamento di alcuni elementi del fabbricato (per ipotesi, la colonna pluviale che serve all’appartamento adiacente).

Queste problematiche non sono sulla in confronto a quella più grave che si potrebbe verificare: l’insolvenza del costruttore. Si tratta di una circostanza in cui il compratore avrebbe molte difficoltà nel recuperare quanto versato sino a quel momento e prima che la casa sia stata completata e consegnata.

Sono state queste le ragioni che hanno indotto il legislatore a introdurre l’obbligo della garanzia fideiussoria, che il potenziale acquirente ha il diritto di farsi rilasciare dal costruttore [2]. Pertanto, anche in caso di fallimento dell’impresa, il privato avrebbe la possibilità di farsi rimborsare dall’assicurazione (in genere è una banca), la quale provvederebbe ad indennizzare l’acquirente degli importi sin lì versati.

Immobile in costruzione: come opera la polizza fideiussoria

Avrai ormai compreso che, secondo la legge, quando decidi di comprare una casa in costruzione, hai la garanzia obbligatoria della polizza fideiussoria offerta dal costruttore, nel caso in cui questi dovesse fallire prima del passaggio di proprietà. Devi sapere, quindi, che saresti coperto per tutte le somme versate antecedentemente al rogito notarile che, evidentemente, non sarebbe mai stipulato. Ecco un esempio che potrà spiegarti meglio il meccanismo.

Se concordi una caparra al preliminare di 20.000 euro, un successivo acconto di 40.000 euro in avanzamento e un saldo di 70.000 euro al momento dell’atto dinanzi al notaio, la garanzia obbligatoria comprenderà solo i primi due versamenti per un totale, quindi, di 60.000 euro.

Casa in costruzione: mancata concessione della garanzia obbligatoria

Abbiamo visto che per le case in costruzione, al momento in cui si pattuisce la futura vendita col preliminare, l’impresa è tenuta a rilasciare una polizza che coprirà tutte le somme sin lì versate dall’acquirente, in caso di fallimento del costruttore. Si tratta, altresì, di una garanzia obbligatoria, poiché lo stabilisce la legge. Cosa accade, però se il predetto obbligo viene disatteso?

La normativa in materia afferma che il contratto preliminare, firmato senza che sia stata rilasciata alcuna polizza, è nullo; un’ipotesi, definita, di nullità relativa poiché è solo il compratore che può esercitare questo diritto.

Se ci pensi non è una gran consolazione, perché cosa potrebbe ottenere un acquirente, di un preliminare di immobile in costruzione, da un costruttore che sta per diventare insolvente? Inoltre, al compratore che ha versato caparra e acconto successivo, conviene un’azione legale per ottenere indietro quanto ha già versato, invocando la nullità del preliminare? In questo caso, sarebbe sicuro di ricevere tutto, senza problemi, da una ditta che lavora sempre sui prestiti delle banche?

Pertanto, se è possibile, fatevi rilasciare la polizza, anche se, va detto, il costruttore cercherà di far ricadere su di voi i costi della stessa. Se non c’è la garanzia, sappiate, infatti, che resterete esposti ai rischi sopra descritti.

NOTE

[1] Dl. 122/2005.

[2] Art. 2Dl. 122/2005.